Architettura e andamento generale
La silloge si configura come un corpus compatto e frammentario insieme, dove i testi non costruiscono un percorso lineare ma un vortice di visioni.
I nuclei tematici si riavvolgono come echi: materia e spirito, parola e silenzio, corpo e dissoluzione, suono e ascolto.
Il titolo, Il sospiro del corvo, indica fin da subito una poetica del grido trattenuto, del suono che è residuo e memoria di sé — un “sospiro” dunque come ultima eco della voce in un mondo che si disgrega.
L’ordine dei testi segue una logica centrifuga: si parte dall’oggetto e dal paesaggio (sedia, tronco, pioggia, mare) per arrivare progressivamente alla pura materia del linguaggio, fino all’osso della parola e al buio dell’ascolto.
Il libro procede per decantazione, come se ad ogni poesia venisse raschiata via una pellicola di senso, fino a lasciare nudo il suono, la voce, il gesto.
Linguaggio, stile e costruzione retorica
Autieri lavora sul linguaggio come materia organica, plasmabile e corruttibile.
Il lessico è fitto, multistrato, a tratti “barocco visionario”: convivono termini arcaici, tecnici, corporali e quotidiani (“molluscoso”, “impagliata”, “batacchio”, “stringhe del guardare”).
La sintassi è costantemente spezzata — un flusso a getti, che alterna espansione e collasso, come il respiro stesso.
Molte poesie sembrano composte di parti in collisione, quasi un montaggio poetico più che una composizione lineare.
Si notano:
uso insistito di ossimori e antitesi (nero/bianco, carne/assenza, luce/silenzio);
prevalenza di metafore sinestetiche, che fondono sensazioni diverse;
impiego della ripetizione e dell’allitterazione come strumenti ritmici, non musicali ma perturbanti;
una costante attenzione al suono come significante autonomo: in molti testi la musicalità precede il senso logico.
Il risultato è un linguaggio denso, fisico, tattile, che sembra voler reincarnare la parola nella materia: la poesia non descrive, diventa ciò che nomina.
)Temi dominanti
a. Il corpo e la materia
Il corpo è ossatura simbolica di tutta la raccolta.
Corpi che si disfano, mani che toccano, pelle che “gracchia” e “leviga l’alba”: la carne è sempre in transito tra vita e disfacimento. 
Il lessico anatomico si intreccia con quello geologico e vegetale — come se l’uomo e la terra fossero un solo organismo che suda, langue, si consuma.
b. Il linguaggio e la voce
In molti testi (6, 10, 21, 51) il linguaggio stesso diventa oggetto di meditazione e crisi.
Scrivere è un atto “blasfemo e devoto” insieme: la parola tenta di creare, ma porta in sé la consapevolezza della caducità.
La voce è sempre rotta, rauca, incompleta; la poesia è vista come un residuo sonoro, “un grido senza bocca”.
c. Il sacro e la dissoluzione
Pur non esplicitamente religiosa, la silloge è attraversata da una tensione mistica: Dio appare come eco, mancanza, braci.
Nei testi finali, l’invocazione si trasforma in silenzio: non c’è più preghiera, ma un ascolto dell’assenza (“Grido l’atrofia dell’ascolto”, 72).
L’esperienza poetica è teologica e carnale allo stesso tempo.
d. Natura, luogo e paesaggio
Dal “colle” e dalla “pioggia di Pineto” fino al “mare bianco” e al “fiume bruco”, la natura è costantemente animata, ma priva di consolazione.
È specchio del tormento interiore: erbe, pietre, tronchi e acqua si comportano come corpi vivi, partecipano del dolore del poeta.
Nei testi centrali e finali, la natura diventa quasi metafisica: il paesaggio si dissolve nel linguaggio stesso.
e. Il corvo come simbolo
Figura cardine: non solo animale, ma principio di conoscenza e di limite.
Il corvo rappresenta il pensiero che osserva il disfacimento, il testimone del dolore.
Nel finale (“5 bagliori”), appare come messaggero cosmico: gracchia, attraversa gli alberi, annuncia il passaggio tra vita e morte, parola e silenzio.
Il percorso della silloge si può leggere come una discesa e risalita del linguaggio:
1. Prime poesie (1–5): materia e percezione → la parola nasce dal contatto con gli oggetti.
2. Sezione mediana (6–15): riflessione sulla scrittura e sull’io → la parola diventa autoritratto della voce.
3. Nucleo centrale (21–25): la voce si apre al sacro e all’ascolto → il linguaggio tocca il suo punto di rottura.
4. Parte finale (43–73): decantazione, ritorno al corpo e alla terra → dissoluzione dell’io e del suono in pura energia cosmica.
La raccolta non cerca una soluzione ma una forma di accettazione: la poesia come testimonianza del non-senso, come sforzo di dire l’indicibile.
Gli ultimi componimenti (43-73) si fanno lapidari, quasi aforistici.
La parola si riduce a frammento, respiro, colpo di luce (“Nero ascolta – poco nereggia –”, “Levigare la pelle dell’alba”).
Qui il linguaggio non costruisce più immagini: scava.
Siamo in una dimensione da “post-poesia”, dove la voce si misura con l’atrofia dell’ascolto, la pietrificazione dei sensi, la purezza residua della parola-terra.
L’ultimo gruppo di testi, dal 65 in poi, chiude il cerchio riportando tutto alla materia originaria — suolo, foglie, ossa, buio.
L’uomo si dissolve nel paesaggio, il paesaggio nella parola, la parola nel silenzio.
Massimo Autieri scrive in una linea che unisce l’ermetismo novecentesco (Campana, Luzi, Bigongiari) con una fisicità neo-barocca contemporanea.
Il suo linguaggio è ostico, stratificato, a tratti volutamente “respiratorio”, ma sempre coerente con la visione che incarna: una poesia che non vuole essere capita, ma attraversata.
C’è un senso di disperazione lucida, ma anche una fede nel potere residuo della parola come atto di resistenza.
L’opera non si limita a un esercizio di stile: è un viaggio antropologico e metafisico nel corpo della lingua.
Ogni poesia è un reperto sonoro, una scheggia di coscienza che si affaccia sull’orlo del desiderio
“Il sospiro del corvo” è una liturgia del verbo ferito.
La lingua, corrosa e luminosa, diventa spazio di sopravvivenza e di conoscenza.
In Autieri, la poesia non è descrizione, ma trasmutazione: il suono si fa carne, la carne si fa parola, la parola ritorna polvere.
L’intera silloge respira come un organismo vivente: ansima, trema, si dissolve, ma non tace mai.
Impressione critica: opera di notevole intensità, che richiede ascolto più che lettura; una delle prove poetiche italiane più radicalmente corporee e metafisiche del decennio.
Francesca Mezzadri