Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

Matteo Speroni anteprima. Il grande buio

Home / Anteprime / Matteo Speroni anteprima. Il grande buio

Potrebbe essere, tra le tante cose, un romanzo distopico, questo Il grande buio, nuovo romanzo di Matteo Speroni in uscita da Milieu Edizioni. La storia è infatti ambientata in una grande caseggiato popolare – un “casone” – di quattro piani che ricorda da vicino una classica casa di ringhiera milanese, che si trova in un quartiere periferico di una metropoli non identificata proiettata in un prossimo futuro. È una città che ha spinto i ceti medio-bassi ad allontanarsi sempre più dal centro a causa dell’aumento del costo della vita, stabilendosi nei sobborgi e nell’hinterland, lasciando spazio alla città dei ricchi e della speculazione edilizia. Un mondo che, liberato dall’iperbole, è drammaticamente attuale. Un interminabile black out elettrico – che porta via luce, uso dei telefoni cellulari, semafori e ospedali – scopre i nervi della convivenza sociale, fatta di tensioni e dissidi ma anche di solidarietà e forme di soccorso e aiuto comunitario. Mentre la città va verso il collasso e infuriano i regolamenti di conti, il fotografo Luc Pontano e Lucia, l’amica radioamatrice, e molti altri personaggi eterogenei e singolari, si imbattono in un omicidio maturato nel cortile del caseggiato e favorito dalla mancanza di luce e dall’incombente buio invernale. Pontano, di controvoglia, si trova quindi a indagare sull’omicidio, fino a una sorprendente rivelazione. Matteo Speroni tesse un nuovo e appassionante romanzo, che per tematiche e ambientazioni sembra mettere insieme suggestioni che rimandano al James G. Ballard de Il condominio e al Giovanni Testori de Il fabbricone, mettendo in primo piano una rete di relazioni e rapporti umani che emerge e s’impongono sulla struttura narrativa e le vicende che la compongono. Senza trascurare il fatto che l grande buio è – anche – un raffinato capo d’accusa che chiama al banco degli imutati il sistema in cui tutti viviamo.

#

Verso le sei di sera, dopo aver letto un poco e riposato un’oretta, Luc aprì il cassetto dove custodiva la fotografia scattata a Norina durante la mattina precedente.

Appoggiò la foto sul tavolino della camera oscura.

“Se questa persona nell’ombra è la stessa che è stata vista uscire la sera, che cosa avrà fatto in casa di Norina tutto il giorno? È strano che un ospite si fermi tante ore. E poi da lei non va mai nessuno.”

Mentre Pontano rifletteva, esplose una cagnara. Luc si precipitò sul ballatoio. I cani del secondo piano, il labrador e lo yorkshire, si erano scatenati contro il pappagallo dell’appartamento all’angolo di fronte al loro, sempre al secondo piano.

La proprietaria dei cani, Nilde, era una signora grassissima, tra i cinquantacinque e i sessanta, che per uscire dalla porta di casa, a doppio battente, faceva sempre una gran fatica, ci passava attraverso come una palla di gomma che, spinta da tergo, sguscia da una parte all’altra di un tubo.

Il pappagallo apparteneva a un giovane eccentrico e allampanato, che si faceva chiamare Jolly, sempre vestito di nero, i capelli scurissimi sparati in una rosa di punte, le palpebre inferiori evidenziate con la matita per gli occhi perennemente puntati sullo schermo del suo smartphone, anche mentre camminava sul ballatoio o scendeva e saliva le scale.

Nilde portava fuori i cani tre volte al giorno, a orari regolari, mentre il Jolly faceva prendere aria al pappagallo sul ballatoio due volte al giorno, per un’ora. In base a un tacito accordo tra i due, che non si erano mai rivolti la parola, cani e pappagallo uscivano a turni

alterni, in modo da non incontrarsi mai.

Questa volta, però, doveva essere successo qualcosa di anomalo, perché quando i cani si affacciarono alla porta, il pappagallo era là fuori, nella gabbia, davanti a loro.

Sembravano impazziti, le due tonalità degli abbai si contrappuntavano ai garriti del pappagallo, che a sua volta li alternava con la parola “burrrrraaasca”.

Al quarto piano, Norina uscì sbraitando. Al terzo, Sandi si mise a suonare una melodia ebbra e dissonante. Il caos non durò molto, giusto il tempo che Nilde raggiungesse il secondo cortile e s’infilasse nel primo. Sul ballatoio comparve il Jolly, avvolto in un impermeabile nero lucido con il collo ad ampie falde, riportò il pappagallo in casa e subito uscì di nuovo, scendendo rapido le scale, sguardo sempre fisso sullo smartphone.

Nel frattempo, Lucia aveva appena finito il turno di lavoro e stava rincasando, mentre Luc stava uscendo.

Quando si affacciò nel primo cortile, Lucia stava per fare ingresso nella tromba delle scale. La giovane si fermò, si voltò, si rivolse a Luc.

“Ciao.”

Anche lei dava del tu a Luc, cosa che peraltro nel casone facevano in molti, forse perché il fotografo sembrava più giovane della sua età, o forse perché lui, sempre

garbato e affabile, ispirava confidenza.

“Ciao Lucia.”

“È successo qualcosa?”

(…)

Arrivò la notte. Dal cielo si irradiava un lucore algido che avvolgeva il casone e il sobborgo, dal quale provenivano rumori improvvisi e sporadici. Qualche rombo di motore, botti, grida rabbiose e urla di terrore. Qualcuno doveva avere fattomucchio, perché da una lontananza indefinibile si levava un canto, anzi una cantilena, una blesa litania. Gli uditi più affinati, a un certo punto, poterono percepire anche un ambio equino, tonfi secchi e regolari sull’asfalto. I cani di Nilde ululavano, poi tacevano, poi ululavano ancora, inseguendosi l’un l’altro come canne d’organo strozzate. Nel casone non si poteva sapere chi dormisse o chi fosse in apnea, chi sognasse o chi, sveglio, vagheggiasse sotto un coltrone.

Ernesto, il tranviere, era uno di questi, nel suo appartamento al quarto piano del primo cortile. Giovanna e Francesca dormivano. La gatta Pulce, arrotolata su sé stessa, gli occhi socchiusi, sonnecchiava ai piedi di Ernesto. Forse lei sognava. A Ernesto tornò in mente quella sera di gennaio, del 7 di gennaio di sei anni prima.

Faceva il terzo turno, dalle cinque di sera alle undici. Erano circa le sette e mezza quando stava percorrendo quel vialone alberato, dove la corsia dei tram è separata dalla strada da uno steccato giallo di metallo e da una fila di arbusti. In quel punto di solito i tram prendono velocità. Ma nevicava fitto da alcune ore, quel 7 gennaio, e il tergicristallo rachitico del tram, un vecchio Carrelli, faticava a spazzare il vetro, così Ernesto andava più piano del solito. La neve aveva già fatto presa sul terreno, ormai se ne erano depositati alcuni centimetri.

Nella carrozza c’erano pochi passeggeri, otto per l’esattezza, tutti seduti sulle panche di legno, tranne uno: tre signore anziane, due uomini di mezza età, un ragazzo e una ragazza che si tenevano per mano, un giovane che, in piedi, guardava fuori dal finestrino posteriore reggendosi alla sbarra di alluminio sotto il vetro. Il rollio della vettura faceva ondeggiare le lampade a campana appese al soffitto, la luce giallastra si intensificava o affievoliva a seconda della velocità del tram sferragliante. Faceva freddo.

Ernesto sedeva in punta di sgabello, gli occhi vicini al vetro, la mano sinistra sulla leva con il pomolo che controlla la velocità. Improvvisamente, alla sua destra vide gli arbusti muoversi, come sospinti da un colpo di vento, e vicino, a pochi passi della fila di alberelli, scorse un’ombra che attraversava la strada di furia, confusa nei fiocchi densi. Quando tra i ramoscelli vide emergere improvvisamente una figura minuta, scura, ruotò con tutta l’energia che aveva la leva in senso antiorario e la mano destra corse a un’altra leva, quella del freno, in basso.

Alcuni passeggeri gridarono dallo spavento. Il giovane che guardava fuori dal finestrino perse l’equilibrio e cadde. Ma il tram scivolò sulle rotaie bagnate. Ernesto sentì un botto sordo. L’ombra vista pochi istanti prima adesso si distingueva, era una signora, che si precipitò davanti al tram, finalmente fermo. Ciò che vide dopo, Ernesto avrebbe voluto non ricordarlo mai.

Click to listen highlighted text!