La bellezza dell’errore: “Cancella tirando una linea. L’errore deve essere visibile, è come una cicatrice e ci ricorda il momento in cui ci siamo accorti dello sbaglio”.
È in libreria Fuori non è ancora così di Miriam D’Ambrosio (Rubbettino 2025 pp. 169, € 16,00).
Se avete voglia di un libro capace di farvi ridere, arrabbiare, commuovere – e, soprattutto, di farvi ricordare cosa significhi davvero “insegnare” – lasciatevi trascinare nella seconda avventura letteraria dell’autrice.
Miriam D’Ambrosio insegna Italiano e Storia in un Centro di Formazione Professionale. Ex giornalista teatrale, ha pubblicato i romanzi Giuda mio padre (2016), L’uomo di plastica (2018) e Folisca (2022).
Dieci anni dopo Fuori non è così, l’autrice torna a parlare dalla scuola professionale della bergamasca dove quotidianamente incrocia diciotto adolescenti provenienti da quattro continenti (“manca solo l’Oceania”). Ne registra con puntualità poetica voci, paure, slanci, errori e sogni.
Il testo è organizzato in brevi capitoli-fotografia: Cambiamenti, L’amicizia secondo Pasolini, L’errore è bello, Migrazioni… che alternano il diario della professoressa con dialoghi scintillanti in aula, temi segreti dei ragazzi, citazioni letterarie e micro-lezioni di vita. Ne nasce un caleidoscopio dove il ritmo non cede mai e ogni sezione porta un colore nuovo alla narrazione.
È un lavoro autentico, perché ogni brano degli studenti è “farina del loro sacco”, come precisa l’autrice.
Miriam D’Ambrosio possiede un orecchio comico-lirico capace di farci passare dal sorriso al nodo in gola in mezza pagina e ci regala uno sguardo dall’interno di quegli istituti professionali, spesso invisibili, dove si gioca buona parte, forse la migliore, del nostro futuro multiculturale.
Fuori non è ancora così è un concentrato di empatia e realtà, capace di far sentire il lettore in cattedra e fra i banchi allo stesso tempo.
È una chiave inglese lanciata contro il parabrezza dell’indifferenza: lo rompe, lascia passare aria buona e ci costringe a tenere gli occhi aperti.
Se vi interessa scoprire dove resiste la bellezza e abita la speranza, questo libro è la prova che un lieto fine è possibile, anche se, a volte, va sudato tra cubi di ferro e verbi irregolari.
Carlo Tortarolo
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FUORI NON È COSÌ
La nostra scuola è molto bella. Bella esteticamente. Luminosa. Il direttore è convinto che circondare i ragazzi di bellezza li aiuti a rispettare ciò che non è loro. La bellezza educa e salva, è così. Non sempre ma quasi.
Rispetto delle regole e, dunque, dell’orario.
Ore 8,25 – «Dove vai?! Dove credi di andare? Hai visto che ore sono? Ritardo di un quarto d’ora! Cosa ridi, cosa parli, cosa rispondi? Qui dentro te le diciamo le cose, ma in azienda ti sbattono fuori, hai capito? Perdono te, arriva un altro, non c’è problema. Fuori non è così!!! Non è come qui dentro che vi riprendiamo e vi facciamo da balia! Non potete fare come vi pare!».
Varcata la soglia, i ritardatari di turno (quasi sempre gli stessi) si trovano davanti il professore di Laboratorio Meccanico che tenta di prepararli alla futura vita professionale.
Chi è in ritardo senza giustifica, chi non ha portato le scarpe anti infortunistiche, non lavora in laboratorio. Chi non sa collaborare e non ha spirito di gruppo, affianca il compagno in difficoltà. A turno puliscono e sistemano. È tutto un livellare, smussare, scartavetrare, tornire. I caratteri insieme al ferro.
Mi piace, ogni tanto, nelle ore libere, scendere in laboratorio e osservarli impegnati sul tornio, concentrati dietro le mascherine quando saldano, seri, meticolosi nelle loro tute o camici blu (qualcuno ha sbagliato e ha acquistato un camice bianco), attenti a ogni parola del professore. Ordinati, diversi da quando sono in classe, pronti a spazzare il laboratorio, a mettere i propri lavori grezzi negli armadietti, in fila: cubi in divenire, abbozzi di morsetti, penne in ottone.
Anni fa, hanno creato persino un presepe e lo hanno colorato: pezzi di ferro sono diventati capanna, case, vie, palme. La Sacra Famiglia, i pastori, i Re Magi, sono bulloni e viti che hanno assunto una forma antropomorfa.
Terminato il lavoro in laboratorio, il gruppo solidale torna all’individualismo trionfante. L’incanto si spezza appena rientrano tra i banchi.
«Torna sul gommone, sporco albanese!».
«Vai a vendere i tappeti, napoletano puzzolente!».
«Prof, è vero che i napoletani puzzano?».
«Ma guardati, ti cambi una maglietta ogni sei giorni! Se poi ti togli le scarpe, ci tocca fare la prova d’evacuazione anti incendio, tanto il pericolo è lo stesso».
Elson e Paolo si sono simpatici, l’ho capito subito. Quando li richiamo all’ordine e al reciproco rispetto, loro rispondono: «Ma profe, scherziamo. Io e quell’albanese là usciamo insieme quasi tutti i pomeriggi. C’è pure Ali con noi. Un marocchino, un napoletano e un albanese. Sembriamo una barzelletta, prof».
Placati, dopo i primi cinque, dieci minuti post laboratorio, oggi ho promesso loro di vedere Troy. Sono stati bravi, hanno lavorato su tre brani dell’Iliade: scontro verbale tra Achille e Agamennone, l’addio tra Ettore e Andromaca e la morte di Ettore per mano di Achille.
Sono attenti, occhi incollati allo schermo e nessun commento fuori luogo nelle brevi scene intime.
Briseide e Achille si baciano.
«Prof, se si fermano qui, mi alzo e me ne vado».
Immediatamente, la scena si interrompe e si torna allo scontro tra i due eserciti. «Ma no, prof! Che me ne frega a me delle scene di guerra, io voglio vedere quelle d’ammooorrrreee!!!».
«Prof, ma perché nel film non c’è Atena che si traveste da fratello di Ettore? E perché nella scena del saluto con sua moglie non c’è la balia? Lui non porta l’elmo, prof, perciò il figlio non si spaventa. Ettore lo prende in braccio e prega Zeus, qui non c’è».
Sono meglio degli sceneggiatori di Hollywood, ma non lo sanno. Il film è lungo, il nostro tempo è scaduto.
«Ma no profe. C’è la morte di Ettore, il suo preferito! Eccolo, eccolo, esce dalle mura e va incontro ad Achille… solo un attimo ancora!».
«Ragazzi, si continua la prossima volta».
«Ma non può chiedere più ore di italiano?».
«Andrea! Più ore di italiano? Allora, hai sbagliato scuola!».
«Anche lei, prof».
«No, io non credo».
«Ma prof, non era Ulisse il suo preferito? È passata da Ulisse a Ettore, così?».