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Momenti di trascurabile fufficità: ovvero, Phrancesco Piccolo e le sue cose da nulla

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Il vero problema dell’odierna editoria italiana? La fuffa. Cioè la produzione di volumi che sembrano rispondere soltanto a un’esigenza di rispettare accordi sottoscritti o di sfruttare la presunta vena dell’autore. Che dal canto suo anziché rifiutare d’essere un oggetto da sottoporre a sfruttamento intensivo, e reclamare i giusti tempi di meditazione per assicurare qualità alla prossima opera, cede all’imperativo di produrre come fosse una catena di montaggio. Il risultato? La fuffa, appunto. Libri scritti solo perché vanno scritti, e non perché contengano cose degne d’essere scritte e lette. Esercizi d’arrotolamento verbale, parole che superfetano parole e nulla dicono. Ahinoi, di esempi ne abbiamo in abbondanza nell’Italia di oggi. Con casi di perversione poligrafica come quelli di Andrea Camilleri, Gianrico Carofiglio, Maurizio De Giovanni, Andrea Vitali. Ex persone ormai ridotte a estensioni umane di una tastiera di pc. E a questo Circolo dei Phuffy si è appena iscritto Francesco Piccolo, vincitore del Premio Strega 2014 col men che mediocre Il desiderio di essere come tutti.
Da pochi giorni Piccolo è tornato in libreria con Momenti di trascurabile infelicità, Einaudi. Volumetto alquanto curioso sia per concezione che per contenuti. Trattasi infatti di superfetazione rispetto al precedente Momenti di trascurabile felicità, pubblicato nel 2010. Tale superfetazione è accompagnata da una fascetta rossa che recita quanto segue: “Il nuovo esilarante racconto dei momenti belli e brutti di cui è fatta la vita”.
Vasto programma!
E chi mai s’era messo in testa di raccontare i “momenti belli e brutti di cui è fatta la vita”? Sembra poco e invece è tutto. E per una missione di tale portata mica ce la si può cavare con un libercolo da 140 paginuzze, che entra comodamente anche nella tasca della più sagomata fra le vostre giacche? Roba che il Phuffy Alert scatta immediato anche per i lettori meno scafati (scaphati?). E quanto all’esilarante di cui viene strillato dalla copertina, pregherei l’addetto alle phascette di Einaudi di essere un po’ più accorto con l’utilizzo di parole e richiami. Ché anzi questi Momenti di trascurabile inphelicità mi rendono sempre più convinto di come alle phascette dei libri bisognerebbe applicare i medesimi standard di controllo tenuti per le etichette dei prodotti da supermercato: ciò che viene annunciato a scatola chiusa deve poi corrispondere ai contenuti verificabili a scatola aperta. Altrimenti bisogna che scattino tutte le conseguenze del caso, dal rimborso del prezzo d’acquisto al risarcimento del consumatore con sanzione per il produttore. Perché, davvero, di esilarante in quelle pagine c’è proprio nulla. Soltanto fuffa, tanta fuffa, fortissimamente fuffa.
Lo si capisce fin dalle prime righe, che ben potrebbero figurare nel Manuale della fufferatura:

L’anno scorso, mia moglie mi ha allungato un pacchetto avvolto da carta colorata e un fiocchetto dorato: il mio regalo di Natale. All’inizio, ho provato a sciogliere il nodo e a scartare il pacchettino, ma non c’era modo che si aprisse: solo dopo tanto tempo, e molto innervosito, ho strappato la carta con le unghie e coi denti. Mia moglie mi guardava fisso negli occhi, curiosa e ansiosa – ma anche spaventata per quella violenza – perché aspettava di capire se mi piaceva.

Ecco la fuffa. La descrizione di una situazione assolutamente insignificante, scritta con prosa dozzinale e incapace di comunicare qualsiasi emotività. E sorvolo su quell’uso delle virgole che frantuma immediatamente l’incipit, e poi spezza in tre il periodo successivo quando molto meglio sarebbe stato lasciarlo scorrere liscio fino al punto. Ma dettagli come quello sulle virgole sono meta-fuffa, li si può anche lasciar correre. È invece sulla fuffopoiesi che bisogna soffermarsi. Per imparare a riconoscerla, e evitare immediatamente i libri che non hanno nulla da comunicarvi perché sono soltanto prodotti scaraventati sul mercato per ragioni commerciali. In questo senso i Momenti di trascurabile inphelicità sono una perfetta dimostrazione di cosa sia la fuffa editoriale, e di quanto sia facile riconoscerla. Sin dall’incipit, che per il lettore appena smaliziato è un sensore infallibile di fufficità. Quello riportato sopra dice molto, ma non ancora tutto. Perché proseguendo nella lettura si scopre come la produzione fuffologica si dilati anziché arrestarsi. E quella situazione iniziale che nulla diceva viene estesa continuando a dir nulla:

L’ho aperto, l’ho guardato e ho sfoderato un sorriso molto ampio e ho detto grazie. Ti piace?, ha detto lei. Moltissimo ho detto io.
Ma non ho capito cos’era.

Mezza paginetta di libercolo e siamo già sfiancati. Ma perché, Piccolo? Perché hai voluto scrivere se non avevi nulla da dire? E almeno a questo punto falla finita svelandoci cosa sia questo oggetto misterioso e passiamo avanti. Invece no. Lui ci gira intorno. Di più: si fa Maestro di Cerimonia del Girintorno, il primo passo del percorso che porta a diventare Cintura Nera di Fufficità:

Era un oggetto strano, con colori belli e una forma particolare, ma non era possibile capire cosa fosse. Intanto che lo mostravo agli altri, lei mi chiedeva: hai capito a cosa serve? Hai indovinato? E io rispondevo: sì, certo; ma sempre più esitante. Poi chiedevo anche agli altri se avevano capito, con la speranza segreta che qualcuno rispondesse sì con convinzione, così finalmente me lo facevo spiegare; per poi dire come se avessi già capito: bravo, hai indovinato.
Ma nessuno ha capito di cosa si trattava. E soprattutto, a cosa serviva; perché a qualcosa doveva servire. O poteva anche essere soltanto un soprammobile, una roba da appendere al muro, o ancora da tenere in cucina, o sul comodino. Ma non era chiaro nemmeno questo.

Fuffa. Che intercetta altra fuffa, e mescolandosi rifuffa al quadrato. E intanto il racconto (?) è già approdato alla seconda paginetta, proseguendo fino alla quarta in cui il primo capitoletto si conclude. Senza che si capisca cosa sia quell’oggetto e quale sia la sua utilità. Il nulla dilatato fino all’estenuazione.
Purtroppo è soltanto l’inizio. E fino alla centoquarantesima pagina si procederà alternando racconti (?) come quello appena illustrato con brevi frammenti in cui l’autore mette in fila quelli che secondo lui sono momenti d’inphelicità. Esempi? Eccoli:

Mi addormento in treno o in aereo, anche solo un poco. Quando riapro gli occhi, vedo il mio vicino di posto che ha davanti un succo d’arancia quasi finito e una bustina aperta dove c’erano i biscotti o i salatini.
Il carrello è già passato. E chissà se ripasserà più. (p. 9)

Quando ci si trova di fronte alle porte dove c’è scritto <staff only>, e non si può entrare. (p. 10)

Quando la donna delle pulizie telefona per dire che oggi non può venire. (p. 13)

Sparecchiare la tavola con i piatti sporchi di sugo e dover spingere i resti del sugo nella spazzatura. (p. 27)

La sigla del telegiornale che arriva dalla finestra di un’altra casa, la mattina o il pomeriggio. (p. 47)

Il fatto di non sapere se la luce del frigorifero, quando l’hai chiuso, si spegne veramente. (p. 57)

<Lasciare il bagno pulito dopo l’uso>, il cartello che c’è in alcuni bagni pubblici. (p. 75)

Che ci crediate o no, Francesco Piccolo ha scritto un libro riempiendolo di cose così. Scambiando il superfluo per minimal, e propinando al lettore le stesse insignificanti cose che il lettore avrebbe imbarazzo a fermare su carta perché non sarebbero di alcun interesse pure per lui. E fuffa che ti rifuffa l’autore continua a alternare i frammenti sulle trascurabili inphelicità con altri di racconto (?). Come quello che inizia a pagina 15:

Nella nostra casa, da qualche anno, vive con noi un bambino giapponese.

Bene, registro l’informazione e aspetto di vedere dove l’autore voglia andare a parare. Dunque proseguo con la lettura:

Viviamo insieme io, mia moglie, mia figlia; e il giapponese.

Ma l’avevi appena detto, cazzo! Cosa lo ripeti a fare? Vado avanti:

A un certo punto è arrivato questo giapponese, e ce lo siamo tenuti, nemmeno sappiamo bene perché.

Ma ancora?! E poi, cosa significa “a un certo punto è arrivato questo giapponese e ce lo siamo tenuti”? Ma cos’è, un tappetino? Un giardino zen in miniatura? E ve l’hanno consegnato per sbaglio, invertendo il pacco con quello dell’aspirabriciole che avevate ordinato su Amazon? Ma di che diamine stai parlando, Piccolo? Proseguo:

Gli diamo da mangiare, da dormire, lo mandiamo a scuola. Cerchiamo di averci a che fare il meno possibile, ma almeno un po’ dobbiamo averci a che fare.

Ma come sono umani in casa Piccolo! Quasi quanto in casa Borghezio. E ancora, si va al secondo capoverso della pagina:

Mia figlia e il giapponese sono molto diversi.

Chissà come mai, lo sospettavo…

Ma molto.

E daje, Piccolo!

Per esempio, mia figlia, da che ho memoria della sua presenza nel mondo (e ormai ha quindici anni), non ha mai sudato. Il giapponese suda ininterrottamente.

E non si fa nemmeno in tempo a pensare a ‘sti zozzi giapponesi che il nostro Phuffy piazza una perla di ragionamento sillogistico:

Di conseguenza, produce un maleodore.

Sono annichilito di fuffa. E potrei anche chiuderla qui perché vi avrei già detto abbastanza a proposito di come riconoscere la fufficità e difendersene, e del perché potreste meglio spendere il vostro tempo e i vostri denari anziché investirli in Esercizi di trascurabile inphelicità. Ma almeno un altro frammento ve lo devo, affinché nessuno abbia a dire che l’ho fatta troppo sbrigativa. Lo prendo da pagina 18, stesso racconto (?) in cui si parla del bambino giapponese:

La parola che il giapponese usa di più è: uatà. Che può essere pronunciata sia in sequenza: uatà uatà uatà, accompagnata da gesti misteriosi che hanno a che fare con atteggiamenti guerreschi, oppure un uatà lungo – uatààààààààà – quando decide di attaccare.
Infatti uatà è una parola che viene accompagnata da un gesto violentissimo. Il giapponese dice continuamente uatà. Anzi, dice prima una serie di cose incomprensibili, una sequenza introduttiva al uatà – tipo: la divisa/ spara/ si copre/ superpotere/ salta/ da lontano/ poi arriva/ uatàààààà.

Sembra di essere tornati ai tempi dei film con Bombolo e er Monnezza, tipo Delitto al ristorante cinese. E invece è solo fuffa del contemporaneo. Prodotta da uno dei più Phuffy tra i nostri autori: Phrancesco Piccolo.
@pippoevai

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