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Mota. Luce Inversa

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Questa non è una recensione. Così mettiamo le cose in chiaro. Io, poi, in senso stretto, non ne scrivo mai. Stavolta, però, con Mota, con La Luce inversa, non mi sento proprio in grado di esprimere giudizi. Piuttosto, questo, è il tentativo di raccogliere quei pezzi che, uno alla volta, si sono staccati dal mio corpo e hanno cominciato a fluttuare nella stanza come se fosse stata piena d’acqua. Leggendo, talvolta, si accorciava il respiro.

C’è una storia che accompagna questo libro. Una storia che io conosco perché quasi tutti gli interpreti sono amici miei. Così ho saputo che Mota frequentava la scuola Holden, diversi anni fa. La frequentava insieme a Salvatore Toscano e a Mario Schiavone che poi, sono diventati scrittori a loro volta. Mota non si diploma. Era uno dei più promettenti, uno proprio bravo, però non si diploma.

Salvatore è di Pomigliano D’Arco. Frequenta la Wojtek, conosce Ciro Marino e allora, anni dopo, si ricorda di quel ragazzo che frequentava la Holden, quel ragazzo che non sente da anni, che era proprio bravo e allora chiama Mario Schiavone e gli chiede se conosce il suo numero. Mario non ha il numero di Mota, ma di altre persone che potrebbero conoscerlo e così comincia questo viaggio. Mota abita sopra le montagne, forse gli Appennini, ma qui potrei ricordare male il dettaglio geografico. Salvatore lo rintraccia, ci parla e scopre che non ha smesso di scrivere, che ha un libro. La Luce Inversa. Mota glielo passa, Salvatore e Ciro lo leggono e, anche loro, cominciano a perdere pezzi, si sfaldano, s’innamorano e pensano, Ciro soprattutto pensa: questo libro lo voglio pubblicare.

Ora, i protagonisti potrebbero aggiungere dettagli, confermare o non confermare questa versione che, a me, piace moltissimo.

Mi piace pensare che esistano ancora persone così innamorate dei libri da voler scovare uno scrittore che pensavano perduto. Persone così umili da lasciare che l’amore per un testo li invada, che si emozionino ancora, dopo tanti libri letti, tanti libri scritti, tanti libri pubblicati.

Poi succede che, siccome Salvatore e Mario e Ciro io li conosco, La Luce Inversa finisce nelle mie mani in un momento della mia vita in cui sento di appartenere ai miei figli più che alla razza umana. Comincia così il conflitto, la lotta con Mota, il corpo a corpo con La Luce Inversa. Perché questo è un libro estremamente denso. Uno dice: sono 124 pagine, lo leggo in un giorno e poi, quando cominci, capisci che ti devi fermare, devi uscire di casa, devi respirare.

Superficialmente, questa è la storia di tre ragazzi: Vanessa; Siddiq e Martin i quali sono stati abusati da bambini. Uno dal nonno, un altro dal prete dell’istituto dove è cresciuto e Vanessa dal compagno della madre.

Tutti insieme partecipano ad un programma sperimentale, una specie d’ipnosi regressiva che avviene grazie alla luce.

Vanessa, Martin e Siddiq, si ritroveranno immersi nel proprio subconscio dove il passato si mischierà ad uno strano e onirico presente, dove le percezioni si amplificheranno. Cominceranno a strutturarsi dei legami tra loro e, insieme, giungeranno ad una casa che, però, ognuno percepirà in maniera diversa, così come il treno. Tutto si deforma, a secondo dell’occhio che guarda. Ogni esperienza di questi ragazzi sarà filtrata dal loro carattere.

A questo punto, leggendo la trama che ho abbozzato, uno potrebbe pensare che sia un libro pesante, triste, soffocante, che descrive il dolore e la sofferenza fino a sfinire il lettore. Penso a Una vita come tante, di Yanagihara, per esempio, che io trovai persino compiaciuto nel mostrare tutte le sciagure e le ferite di uno dei protagonisti. In Mota questo non avviene, perché  la sua scrittura è lineare e immediata. E così la struttura. I paragrafi sono contraddistinti dal nome del personaggio che ricorda. Ne vengono fuori piccoli monologhi che, lentamente, si intrecciano con gli altri, creando un’architettura interna molto accurata. Luce Inversa è come un formicaio. Da fuori vedi solo un buco, un cono di terra e poi, dentro quel buco, ci sono decine di gallerie, di spazi, di risacche, di depositi per la sopravvivenza.

Leggere queste pagine è stato come  se lo scrittore calcasse con un pastello sempre sullo stesso punto fino a bucarmi. Ascoltare la storia di Siddiq, di Vanessa e di Martin, mi faceva pensare ai miei figli, amplificando la voglia di proteggerli.

In definitiva, non saprei definire questo romanzo. Per me è stato un monte da scalare, una superficie spigolosa da colpire, da picconare, per poi essere invaso dal calore morbido della luce all’orizzonte.

Pierangelo Consoli

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Mota, Luce Inversa, Wojtek 2025, Pp. 124, Euro 16.

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