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Nicola Manuppelli. Gatsby. Lezioni fuori rotta su un classico americano

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Nicola Manuppelli non ha scritto un saggio, e nemmeno – come recita il sottotitolo – delle “lezioni fuori rotta” su un classico americano. Ha scritto una lunga lettera d’amore al suo scrittore preferito, elencando le influenze, le affinità segrete, le genealogie letterarie, i duelli intellettuali, le amicizie, le ossessioni, i debiti di stile.
Perché quando un autore torna più volte sullo stesso libro, lo traduce, lo porta in scena, lo racconta a voce nei teatri o nelle aule, non è solo un esercizio di critica, è un atto d’amore, e forse qualcosa di ancora più profondo: è riconoscenza.

Il Gatsby (Jimenez Edizioni) di Manuppelli nasce dal pop, dalle versioni cinematografiche che ne hanno amplificato il mito, per risalire fino a Trimalcione, la prima e più spoglia incarnazione del romanzo. È un viaggio a ritroso nel mito, un percorso che attraversa la superficie patinata dell’età del jazz per mostrarne le radici più profonde e classiche.
Fitzgerald, sostiene Manuppelli, non descrive soltanto l’America degli anni Venti, ma una nuova Roma imperiale, fatta di eleganza, eccesso e disincanto. Da Petronio ad Apuleio, da Epicuro a Pater, la linea è diretta: la ricerca della bellezza e la condanna del desiderio, la quiete e la perdita dell’innocenza.

In questo orizzonte di continuità, uno dei grandi meriti di Manuppelli è ridare voce a Nick Carraway, il narratore dimenticato, lo sguardo dietro il mito. È lui, più ancora di Gatsby, a portare il peso del sogno e della disillusione. Attraverso Nick, Manuppelli ci ricorda che Il grande Gatsby è un romanzo sulla difficoltà di vivere in un mondo che non accoglie i sognatori — un mondo che consuma la propria luce fino a lasciarne soltanto il riflesso.

C’è poi il nodo biografico, che l’autore affronta con misura e precisione. Il romanzo, scrive, racconta molto più del primo amore di Fitzgerald, Ginevra, che di Zelda — figura che negli ultimi anni qualche interpretazione fantasiosa ha cercato di trasformare in eroina pro-femminista, dimenticando che la realtà, come spesso accade, era più complessa e più umana. Manuppelli dissolve ogni equivoco pubblicando una lettera struggente di Scott alla figlia, più rivelatrice di qualunque aneddoto (perfino di quello, celebre, in cui Zelda tentò di ucciderli entrambi in automobile).

E poi c’è il rapporto con Hemingway. Da hemingwayano convinto, non posso che ammettere che io e Nicola Manuppelli siamo destinati a non metterci mai d’accordo: lui fedele a Scott, io a Ernest, entrambi troppo innamorati di questi due giganteschi autori per cedere terreno.

Più si procede con la lettura, più Gatsby diventa una figura leggendaria, un moderno Lucio o Dorian Gray, un uomo che si reinventa, che si trasforma fino a sparire. È maschera, è sogno, è nebbia. “Gatsby si nasconde, ma non finge”, scrive Manuppelli, accostandolo a Pulcinella: entrambi esistono solo se qualcuno li guarda.

Il libro procede come un viaggio tra epoche e simboli, mescolando saggistica e racconto, citazioni classiche e ricordi personali, fino a un ultimo capitolo commosso, in cui la “luce verde” non è più Daisy ma la felicità stessa. Manuppelli chiude il suo percorso restituendo a Fitzgerald la leggerezza che la mitologia letteraria gli aveva tolto: la capacità di credere ancora nella bellezza, nonostante tutto.
Perché, scrive, la letteratura non serve a raccontare le tragedie ma a inseguire la gioia, l’attimo in cui siamo stati vivi davvero.

Con una lingua limpida, ironica e colta, Gatsby lezioni fuori rotta su un classico americano è insieme un atto d’amore verso Fitzgerald e una riflessione sulla potenza del mito: perché ogni epoca, per capire sé stessa, deve inventarsi il proprio Gatsby.

Michele Crescenzo 

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