Ancora una volta il Premio Nobel per la Letteratura sorprende e divide: ad aggiudicarsi l’edizione 2025 è lo scrittore ungherese László Krasznahorkai, nome celebrato nei circoli letterari internazionali ma pressoché sconosciuto al grande pubblico italiano. Niente da fare, anche quest’anno, per gli eterni candidati Haruki Murakami, Don DeLillo, Cormac McCarthy (postumo), Margaret Atwood o l’ormai “fantasma del Nobel” Philip Roth.
Ma chi è davvero Krasznahorkai? E perché l’Accademia Svedese ha scelto lui?
“Nel mezzo del terrore apocalittico, riafferma il potere dell’arte”
Con questa motivazione, l’Accademia ha premiato un autore che ha costruito la sua opera sull’abisso della condizione umana, ma senza cedere al nichilismo. Nei romanzi di Krasznahorkai — spesso lunghissimi, a volte composti da frasi che durano pagine — l’apocalisse è una lenta dissoluzione, una frattura sociale, morale e spirituale che si consuma tra rovine, campi fangosi e paesi desolati dell’Europa orientale.
Le sue storie raccontano l’attesa, l’ossessione, il vuoto, ma anche la possibilità di un’illuminazione: “sguardo privo di illusioni”, dice l’Accademia, ma anche “fede incrollabile nell’arte”. Un binomio quasi mistico, tanto più potente quanto più raro nei dialoghi serrati.
Nato nel 1954 a Gyula, al confine tra Ungheria e Romania, Krasznahorkai ha cominciato a pubblicare negli anni ’80. Il suo capolavoro iniziale, Sátántangó, è un monumentale romanzo corale sulla disgregazione di una comunità rurale dopo il crollo del regime comunista. La struttura, la lingua e l’atmosfera dell’opera sfidano la narrazione convenzionale.
Nel tempo, ha collaborato con il regista Béla Tarr per portare sullo schermo le sue visioni cupe, ipnotiche: Werckmeister Harmonies, The Turin Horse, Sátántangó stesso sono film diventati oggetti di culto nei festival internazionali.
Krasznahorkai è spesso accostato a Kafka, Beckett, Thomas Bernhard — ma a differenza loro, il suo lavoro si evolve verso un tono quasi orientale: nei suoi ultimi romanzi c’è un respiro più lento, contemplativo, influenzato dalla filosofia zen e dai suoi lunghi soggiorni in Giappone e in Cina.
László Krasznahorkai, autore di notevole rilievo nel panorama letterario contemporaneo, si contraddistingue per uno stile estetizzante che, pur risultando spesso affascinante, tende talvolta a mascherare una certa carenza di sostanza concettuale. Il suo linguaggio, riccamente ornato e sovente oscuro, sembra riflettere più una ricerca di intensità formale che una reale volontà di esplorazione etica o metafisica. L’influenza evidente di modelli come Kafka, Beckett e Bernhard appare, in alcuni casi, più un’appropriazione superficiale che un’assimilazione critica e profonda delle rispettive istanze morali, ontologiche o escatologiche.
A ciò si aggiunge una certa indeterminatezza discorsiva, accompagnata da una commistione di registri stilistici non sempre coerente e da un controllo strutturale che risulta a tratti labile. La frequente evocazione di un’oscurità esistenziale raramente trova una traduzione autenticamente espressiva sul piano narrativo, rimanendo più spesso nel dominio dell’allusione retorica. Alcuni passaggi, inoltre, sembrano riflettere una riflessione filosofica ridotta quasi a compendio, priva della necessaria profondità teorica.
In questo senso, l’opera di Krasznahorkai incarna emblematicamente ciò che Charles Newman ha definito climax inflation: una tendenza a supplire alla
carenza di significato attraverso un’escalation di intensità emotiva e di densità verbale, più che tramite un’effettiva costruzione semantica. Nonostante ciò, l’autore presenta indubbi elementi di interesse che giustificano l’attenzione critica di cui gode.
Non è uno scrittore “da comodino”. Le sue opere sono difficili, spesso inclassificabili. Frasi fiume, paragrafi senza interruzioni, ritmo ossessivo. Le sue pagine non accompagnano il lettore: lo mettono alla prova.
Proprio per questo la scelta del Nobel è significativa: premia non solo un autore, ma una forma radicale di letteratura, che sfida le aspettative del mercato e invita alla resistenza contro la semplificazione. In tempi di distrazione permanente e lettura a scorrimento, l’opera di Krasznahorkai chiede lentezza, attenzione, sforzo. In cambio, offre un’esperienza quasi metafisica.
E in Italia?
In Italia Krasznahorkai è pubblicato con grande parsimonia. Alcuni titoli sono usciti per Bompiani e Rizzoli, ma con scarso risalto mediatico. Le sue traduzioni sono rare, le vendite marginali.
È probabile che il Nobel cambi le cose. Un premio così importante può portare a nuove edizioni, traduzioni aggiornate, ristampe e — si spera — una scoperta più ampia di un autore che ha molto da dire anche al lettore italiano, oggi più che mai immerso in una crisi di senso e rappinfluenzato.
Ogni Nobel è anche un messaggio. Con questa decisione, l’Accademia svedese sembra voler premiare la fedeltà alla letteratura come esperienza totalizzante, difficile, ma essenziale. Una letteratura che non consola, non intrattiene, ma interroga e resiste.
Murakami? Roth? Atwood? McEwan? Ancora una volta rimandati. E forse, verrebbe da dire, non è un caso: il Nobel non cerca popolarità. Cerca profondità.
Post Scriptum
Per chi volesse affrontare Krasznahorkai, si consiglia di iniziare con:
Sátántangó (romanzo e film)
Melancholy of Resistance
Seiobo è discesa sulla terra