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Non sono stata io. Forse

Roberta Denti

Ogni volta che qualcuno pronuncia il mio nome, a me di riflesso, come quando il medico batte il ginocchio con il martelletto, parte un colpevole: «Cos’ho fatto?!»

Una reazione istintiva, senza fare la vittima.

Del resto, le combinavo sempre io.

Che fosse un dispetto, una marachella, un danno, la Pierina ero io.

Se fossi nata in questi anni farmacolizzati, sarei stata dopata di tranquillanti alla nascita.

Invece ho avuto la sfacciata fortuna di nascere negli anni Settanta – come ninna nanna mi facevano ascoltare Donna Summer – in un’ovattata e distratta famiglia, che per arginare la burrascosa figlioletta le rifilava bicchierini liquorosi nella vana speranza di tramortirla.

Ma il nettare degli dei invece di placarmi, mi ringalluzziva e con il passare del tempo l’ho usato come scusa per le peggio nefandezze commesse ai danni di altri.

Non essendo una professionista del crimine, ma solo una ridicola lestofante, di bassa lega, e altezza, sono sempre stata beccata e me la sono sempre cavata.

Una sola volta in vita mia osai non timbrare il biglietto della metro. Uscivo con uno poco raccomandabile. Tra i suoi crimini c’era un abbonamento scaduto dei mezzi pubblici. A quattordici anni mi sembrava di uscire con Al Capone. Ebbene nel maldestro e ridicolo tentativo di non farmi vedere, sudando in preda all’ansia, nemmeno avessi assalito un furgone valori, appena inserii il biglietto, già timbrato, che criminoso atto, fui immediatamente colta in fragranza di biglietto invalido dal vigilante. In questo caso il controllore dell’ATM.

Sgamata in fragranza di stronzata.

Fu allora che compresi che la vita da fuorilegge richiede una scaltrezza che a me, nata maldestra, era stata negata.
Mi toccava inventarmi altro. Non per lavorare o impegnarmi, quelle horreur, ma solo per scansare qualsiasi responsabilità. Fu allora che mi venne in prezioso e salvifico aiuto la mia più grande dote: la simpatia. Nonché la faccia di tolla.
Una volta quando un’amica mi beccò con la lingua nella bocca del suo fidanzato, dalla mia, umida e vergognosa, uscì la frase, erroneamente attribuita solo agli uomini immortalati sul fatto: «Non è come pensi – mentre ancora slinguazzavo – posso spiegarti» sputacchiando saliva condivisa.

Un totale e assoluto fallimento.

Ecco cosa sono: una che sbaglia sempre ma continua a farlo, frivola e leggera riuscendo comunque a portare a casa una risata. Quando non un calcio in culo. Che prendo ridendo. Ah, nulla come l’abitudine …

Io sono simpatica non nell’accezione greca per cui mi frega qualcosa dei sentimenti altrui, no, no, non pensatemi migliore di quanto scriva, sono una pigra indolente e ho solo escogitato un metodo per cavarmela e cavarmi dai casini che commettevo. E’ così che sono diventata quella che tutti vorrebbero avere accanto.

Per ridere.

Per incolparla.

Per viverla.

Bramata a ogni ritrovo sociale – viene la Roby, spettacolo assicurato – quella che non vorreste mai presentare ai vostri genitori nel terrore che vostro padre, vostra madre, vostra sorella, anche il cane, scappi per stare con me, il personaggio che rallegra e scombina qualsiasi incontro.

Quella che fa battute fuori luogo in loco.

Quella che inciampa nella sua ombra.

Quella che si ride addosso, quando non fa di peggio.

Quella che non si contiene perché non saprebbe dove mettersi.

Quella con la faccia da schiaffi che gli schiaffi te li ridà con più foga e furia.

Quella che ‘quella non è a posto’ ma un suo posto lo trova sempre.

Preferibilmente non scomodo o scomodo io gli altri.

«Ti ho sposato per allegria», lo ricordate il film con Monica Vitti?

Ecco io sono così.

Non bella come Monica.

Non brava come lei.

Ma altrettanto spumeggiante e scombinata.

«E’ stata lei!» esclamò l’ostetrica alla mia nascita. Io sarei anche rimasta nel pancione della mia mamma, la bellissima Maria Grazia Baldeschi, originaria di Luino, Lago Maggiore. Mi piaceva stare in quella pancia. Mamma fumava come una ciminiera, le Gallant, era sempre truccata, usava i toupet ed era elegante, anche se già da dentro mi sembrava un po’ triste.

Allora pensai: adesso esco e la diverto. Ma fu lei a rendere il nostro parto particolarmente indimenticabile. La sera prima della mia nascita, mentre me ne stavo amniotica e beata dentro, pronta a irrompere e rompere nel e il mondo, mamma aveva pensato bene di partecipare alla sagra della salsiccia insieme a papà, Agostino Denti, irrequieto laghé nativo di Bellano, peculiare paesino sul lago rivale, il Lario.

Le sue doglie all’alba di domenica 2 luglio 1972 furono ridimensionate dall’urticante understatement emotivo di papà: “Smettila di lamentarti”. Disse lui, che se gli tocchi un callo pretende l’ossicodone. Come dire è facile fare il capitano coraggioso con l’utero altrui. Dopo dolori indicibili e incomprensibili, almeno per me fiera nullipara, il mio genitore accolse la richiesta di aiuto e la caricò sulla Bianchina insieme a nonna Amedea per portarla in ospedale. Nonna osò esporre dal finestrino un fazzoletto bianco, che un tempo equivaleva a segnalare un’emergenza.

Risposta seccata e piccata di papà: «Ti prego Amedea. Non siamo meridionali.»

Come mia madre, squarciata dai dolori e dal rigore di papà ,abbia reagito, non mi è dato sapere. Io stavo scalciando per uscire a scombinare le loro vite che già da dentro mi sembravano necessitare di un aiutino interno.

So solo che quando sono “eruttata” al mondo, mio padre dev’essere sembrato deluso dalla vagina della bambina perché un infermiere dell’ospedale di Varese gli disse: «Nella casa degli sciuri, prima la serva e poi il padrone.»

Mio padre oggi mi chiama suffragetta per la mia indole indipendente e polemica.

L’infermiere è scomparso.

Chi sarà stato?

Non sono stata io … Forse.

Da continuare …

Se mi va.

Boh.

Roberta Denti

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