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Nostra Signora dei Sullivan. Intervista a Gianfranco Mammi

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Nostra Signora dei Sullivan, il nuovo romanzo di Gianfranco Mammi edito da Nutrimenti nel 2021, racconta l’assurdità del quotidiano secondo una raffinata chiave ironica. Straniante ‘filmismo’ che ci coinvolge in una sorta di onirico rovesciato. Nei cinquantasei capitoli si dislocano quadri in quel che parrebbe un poliziesco anomalo ambientato in una città della zona desertica del Sud degli Stati Uniti, se non fosse che il misterioso continuo morire di Sullivan non quadra e il mistero diventa culto. La morte che si ripete smette di essere macabra come le morti che vediamo ripetersi qui nell’irrealtà fuori dal romanzo. Jet militari che fanno esplodere l’aria con i loro bang supersonici e fenicotteri che diventano simbolo religioso, rose suore e angeli ectoplasmatici. Il culto mass-mediatico e devoti fedeli che divengono sciacalli del culto. Mentre i fondatori della nuova religione scelgono la via anacoretica: è il vuoto il luogo del loro desiderio. Una favola cosmicomica è questa in cui si esalta quella nota dolente della società velocissima attuale: tutto e subito, tutto è subito. Sullivan esaudisce immediatamente le preghiere. Il godimento sono i Sullivan. Se c’è una spietatezza è quella ben evidenziata in controcanto nella società reale che noi si vive abituandoci a tutto o quasi. Il rosa e la birra. L’oro, le rose e le preghiere. L’arte di questa scrittura desiderante ruota intorno al loop della morte, più che alla resurrezione. Un tragitto lacaniano, pare, questo raccontare con leggerezza la crudeltà del vivere attorno al buco imperituro del perire. In esergo Antonin Artaud a ricordarci che «la realtà è terribilmente superiore a ogni storia, a ogni favola, a ogni divinità, a ogni surrealtà».

Gianluca Garrapa

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«L’ex necroforo Burna spiegava in parole povere perché era stato scelto il simbolo del fenicottero: “Abbiamo scelto questo simbolo, in piena coscienza e di comune accordo con i nostri primi fratelli in Sullivan, perché il fenicottero è un animale capace di vivere in molti regni: nell’aria, nell’acqua, sulla terra»: le morti sono sempre varie e quindi per Sullivan il tempo sembra essersi congelato, al contrario di quanto accade ai personaggi del romanzo, molti dei quali vediamo evolversi, mutare posizione sentimentale e sociale. Come nasce questa storia? Scrivere un romanzo modifica il tuo punto di vista sulle cose del mondo, apre nuove consapevolezze oppure è una sorta di piacevole abitudine?

Per me scrivere è sempre stato un grande piacere, è il mio hobby preferito da oltre vent’anni, assieme alla lettura. Più che scrivere, è appunto leggere la cosa che rischia maggiormente di farmi cambiare idea sul mondo, anche perché leggo di tutto – mentre mi astengo volentieri dallo scrivere di tutto. Comunque non mi piacciono i personaggi troppo coerenti, tutti d’un pezzo, li ritengo poco divertenti e anche poco utili ai fini della narrazione; in effetti, nel Sullivan, quasi tutti i personaggi (e ce ne sono tanti) a un certo punto diventano “ex” qualcosa, per scelta o per destino: ex vicesceriffa, ex cuoco, ex necroforo, eccetera.

«Ma forse bisogna essere persone ristrette per fare carriera, meditava infine, mentre l’ennesimo jet militare rompeva il muro del suono e tutti quanti facevano un saltino sulla sedia»: questo culto di Sullivan è un culto della morte, non si parla mai di resurrezione, ma di continua morte. Una sorta di dio terreno, e dall’alto dei cieli solo l’iperpresente rombo del jet ultrasonoro. In Nostra Signora dei Sullivan, mi viene in mente il capitolo 12, La casa dei rumori sbagliati, c’è, appunto, un continuo ronzio, un rumore bianco, di pensieri che si rincorrono, di voci, di urla e di cani che abbaiano. Ha un rapporto particolare con la musica e il suono, la scrittura di Nostra Signora dei Sullivan, che tra l’altro pare rispettare una sorta di partitura ritmica?

Mentre nel romanzo pubblicato l’anno scorso, Ugo il Duro, vincitore della decima edizione del premio Luigi Malerba, mi ero concentrato molto sugli odori (si trattava delle avventure di un emarginato, che non aveva tante occasioni di lavarsi), nel Sullivan ho fatto molto riferimento ai suoni; in particolare, il rumore dei jet che sfondano il muro del suono è una specie di colonna sonora che accompagna tutta la vicenda. La musica invece non compare tanto, forse un paio di volte. Quindi i rumori sì, la musica no; forse perché i rumori hanno qualcosa di più inumano, chissà. La partitura ritmica di cui parli può derivare anche dalla ripetizione insistita del nome di Sullivan, che ricorre moltissime volte.

«Una città piatta, la nostra, e non solo in senso geomorfologico» e «Va bene, il paesaggio non era dei più affascinanti, il clima era terribile, gli abitanti notoriamente disgustosi»: questi luoghi di cui non sappiamo mai il nome, come li hai creati? Hanno a che fare con la tua origine venezuelana?

In realtà no, anche perché il Venezuela lo conosco molto poco. Ancor meno conosco gli Stati Uniti, dove non sono mai stato, ma ormai il novantacinque per cento di quello che vediamo in televisione o al cinema è ambientato lì, per cui è stato più facile documentarmi o comunque trovare degli spunti. Anche la letteratura americana mi ha dato una mano, pur se in modo meno sostanzioso. Ho scelto di ambientare questa storia negli Stati Uniti perché lì le nuove religioni nascono e prendono vigore senza tanti problemi; in Italia sarebbe stato un evento già meno verosimile.

«e lungo i bordi si riconoscevano alcuni personaggi centrali in questa vicenda, a cominciare dall’ex tenutaria di bordelli fino all’ex vicesceriffa, cacicca in pectore del convento misto sullivaniano»: che lavoro hai fatto su questi personaggi il cui desiderio ruota intorno alla morte di un uomo? si potrebbe supporre che proprio intorno alla cosa mortale del godimento si sviluppi questo romanzo?

Non so rispondere con rigore “filosofico” a questa domanda. Il mio metodo di scrittura consiste nell’affidarmi il più possibile all’improvvisazione, frase per frase, e vedere cosa succede. Lo trovo più divertente, e poi ho abbastanza tempo da perdere. Non procedo mai sulla base di una trama ben definita; all’inizio c’era soltanto l’idea di un uomo di bassa condizione sociale che muore un’infinità di volte senza mai risorgere, fino al punto di veder nascere un culto fondato su questo fatto inspiegabile. Ogni personaggio si è poi sviluppato da solo a poco a poco, attraverso quello che dice e quello che fa, in modo abbastanza naturale e non “programmato”. Non ci sono quindi tesi o teorie particolari alla base del romanzo; può darsi che, a opera finita, se ne possano ricavare alcune, però non sono state premeditate.

«Costui diceva che la sua fede da alcune settimane vacillava, cioè andava e veniva; e quando se ne andava, il fedele credeva di scorgere un angelo bambino al fianco del prete, mentre quando ritornava la fede, l’angelo scompariva. Era un peccato oppure era un’allucinazione? E c’erano già stati altri casi del genere?»: come il fenicottero collega mondi diversi, allo stesso modo la realtà del romanzo pare aumentata, fatta di carne e ectoplasmi, visioni e colori. La presenza di Artaud mi pare aleggiare nel surrealismo del romanzo, e ci sono stati altri riferimenti, magari inconsci, in questo tuo lavoro?

Altri riferimenti consci direi di no. Per quanto riguarda quelli di cui non mi rendevo conto, devo dire che da più parti hanno accostato il Sullivan al realismo magico. Io sulle prime storcevo un po’ il naso, ma controllando meglio che cosa s’intende esattamente con questa etichetta, devo ammettere che qualcosa di vero c’è: in effetti, si tratta di un’opera narrativa in cui degli elementi magici appaiono in un contesto realistico descritto con una certa precisione. Però diffido moltissimo delle etichette: seguendo questi criteri, anche molte pagine della Bibbia apparterrebbero al filone del realismo magico…

«Intanto era arrivata l’autorizzazione per seppellire la prima salma di Sullivan; i nostri due vicesceriffi decidevano di partecipare alle esequie, come avevano visto fare in moltissimi film polizieschi e di spionaggio»: tornando alla domanda precedente, in Nostra Signora dei Sullivan mi pare molto presente una certa ambientazione filmico-seriale, potrebbe non terminare mai questa storia, e anzi alla fine del libro ci si immagina una sorta di seconda stagione. Nella stesura del romanzo hanno avuto qualche ruolo certi film o serie tv?

Come accennavo in precedenza, mi sono basato completamente sulla produzione televisiva e letteraria made in U.S.A. Anzi, ho anche calcato la mano, esagerando fino alla parodia certi stereotipi che se presi pari pari sarebbero risultati abbastanza scontati, quindi piuttosto deboli. Ho preso un po’ spunto da un “maestro dell’esagerazione”, come si autodefiniva Thomas Bernhard, un autore che io amo molto. Però non credo di aver voglia di dar vita a un sequel – anche se a questo mondo non si può mai dire.

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