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GIAN RUGGERO MANZONI INEDITO. OLTRE IL GRIGIO

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«Il timore della morte è all’origine non solo delle religioni, ma anche delle filosofie e delle scienze della natura – di tutte».

Oswald Spengler

Gian Ruggero Manzoni. Foto di Maria Vitolo

Clodio Emiliano, patrizio romano e funzionario imperiale, era l’ultimo discendente di un’importante famiglia nota fin dai tempi di Teodosio.

Dall’aspetto slanciato e dai modi marziali, in sé portava tratti germanici, che il biondo dei capelli e l’azzurro delle iridi rendevano oltremodo manifesti. Il sangue barbaro, donatogli dal nonno e dalla nonna materni, veniva con forza a sostenere una mente coraggiosa, da sempre votata al bello e alla cultura.

Legato da amicizia al filosofo Boezio, venne scelto dal Senato romano quale degno rappresentante per recarsi a incontrare il re ostrogoto Teodorico, vincitore di Odoacre. Si era agli inizi del V secolo dopo Cristo e Ravenna già la si appellava come Capitale dell’Occidente conosciuto.

Clodio, manifestazione concreta di un fisico aitante e di una psiche equilibrata, doveva però convivere con ciò che oggi viene definito un difetto non di poco conto. Egli non vedeva come i più. I suoi occhi non distinguevano i colori, così che il suo era un mondo di bianchi, neri e grigi. Un mondo duro, difficile da sostenere, ma che comunque egli amava, essendo in grado, merito della profonda sensibilità che lo pervadeva, di trasformare in virtù ogni mancanza.

Clodio sapeva che, dalla sua personalità, dipendevano le future sorti della popolazione romana e quindi, il come si sarebbe posto innanzi al sovrano dei Goti, diveniva compito di vitale importanza.

Nell’esarcato di Ravenna si era in tempi di epidemia malarica, ma ciò non scoraggiò il tribuno che, cosciente dell’importanza del suo incarico, subito andò. Questi che riporto sono brevissimi stralci del dialogo intercorso fra Teodorico degli Amali, uomo di elevata arguzia, allevatosi a Costantinopoli, e l’Emiliano stesso; incontro che durò, secondo gli storici, per ben tre giorni e tre notti. Dopo i vari convenevoli, che la forma diplomatica imponeva, e prima di giungere a definire le nuove condizioni e le nuove regole, i due, entrando ben presto in confidenza, come dovrebbe avvenire fra tutti coloro che sono soliti usare la mente come si deve, si trovarono a incrociare le lingue sugli argomenti più disparati, così da sondarsi vicendevolmente e dare sfoggio del proprio sapere.

Teodorico: «Amico mio, la vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione è fugace, l’esperienza è fallace, il verdetto è difficile… cosa resta, perciò?».

Clodio: «Noi siamo gente inquieta, mio re, e bisognosa di certezze; gente che è alla ricerca di un assoluto, ossia di una verità su cui basare il proprio essere in questo mondo. Sballottati dal fato, dai capricci di una divinità, dalla relatività insita in ogni azione e dalle maree della storia, detto assoluto lo possiamo trovare solo in noi stessi». […]

Teodorico: «Mi hai confessato che vedi solo il bianco, il nero e il grigio. Come puoi elaborare una teoria, quando i colori non ti possono sostenere a livello di stimoli?».

Clodio: «La saggezza è per l’anima ciò che la salute non è per il corpo. Il difetto fisico può impedire di avere un’esistenza pari agli altri, ma non una conoscenza inferiore agli altri. Di solito, la mancanza accresce il numero delle varianti che la ragione riesce a elaborare in funzione di ogni specifico caso. Se, percependo i colori, molto si indugia sull’emozionale sensazione, non percepirli significa svolgere un’analisi più approfondita, perché meno condizionata dalla componente estatica. Nell’ammirare un oggetto non ti fai perciò deviare dall’effetto cromatico che emana, ma il giudizio su di esso scaturisce dalla sua forma spogliata dall’abbaglio, definita esclusivamente dai contorni, quindi e unicamente dal come i volumi si svolgono, sostenuti da un netto e non forviante chiaroscuro, e dal come tale oggetto va a occupare lo spazio a lui assegnato. Lo stesso valga quando mi trovo davanti a un mio simile. Mi affido mentalmente a un processo eguale, per poi elaborare e poi definire un significativo giudizio di valori, riguardante, appunto, il soggetto medesimo; un giudizio che, a mio avviso. risulta molto più concreto e degno di affidamento di qualsiasi altro».

Gian Ruggero Manzoni. Foto di Daniele Ferroni

Teodorico: «Allora dimmi, come ti appaio in bianco e nero?».

Clodio, saettante: «Finora come tu fossi colorato».

Teodorico: «Nella tua scala percettiva neppure il grigio mi concedi. Il tuo è un complimento, oppure lo devo intendere come un insulto?», il re non attese la risposta e, ridendo, continuò: «Comunque rispetto la sincerità che muove le tue parole, ma sempre meno la mia curiosità, perché inutile e fatuo gingillo». […]

Clodio: «E tu, mio re, cosa mi dici riguardo il potere e quella gestione?».

Teodorico, serio: «Avendoti conosciuto non posso affermare altro che l’essere potente è massima condanna perché, qualunque cosa insignificante si faccia o si dica, terrorizza sapere che altrui orecchie o altrui occhi sono come rasoi sempre pronti a scuoiarti. Inoltre, anche se afflitto, mai posso far trapelare i miei turbamenti, in maniera che, la maschera che indosso, procuri sempre serenità in chi mi circonda. Ma ciò, di seguito, fa sì che io non mi possa mai fidare dei consigli di alcuno, perché elaborazioni e opinioni scaturite da quella finzione da me ininterrottamente messa in atto. Rimane, nel potere, la mia solitudine, figlia primogenita del comando e immagine della consapevolezza. Così ogni uomo, anche il più grande, lascia la vita come se l’avesse appena iniziata, e, nel vero, come se non l’avesse mai vissuta. Diviene teatro il reale dell’esistere e, l’azione, niente più che lo svolgersi sempre eguale dei giorni. Da quando, come uomo, per la prima volta ricorri alla menzogna, proprio da quel momento non sei più, se non artificio dell’ artificio fra gli artifici, creando, nel divenire, sequela infinita di recite e di falsi stimoli, di false concatenazioni, di false cause, di falsi effetti, forse, infine, per ritrovarsi nel nulla dell’origine; in quel candido inizio, in quella prima luce; un puro nulla al quale, per il resto dei nostri giorni, ambiamo tornare, ma che, alla stregua, odiamo, perché da esso il nostro Calvario. Un candido nulla che di continuo tentiamo di esorcizzare proprio attraverso quel fingere la vita, quel trasformarla in farsa, poi in tragedia. Quindi, Clodio, il potere, con la sua gestione, non è altro che un bisogno fra i tanti che albergano nell’animo umano. Il solo vantaggio che ti dà lo scettro è l’essere il primo attore, il primo commediante. L’essere colui che getta la prima battuta, in modo che lo spettacolo vada a cominciare e, tramite gli altri personaggi e l’evolversi della trama, tu possa ogni attimo rimpiangere l’onestà che regnava allorquando il palcoscenico era vuoto, e la tela del sipario era umilmente abbassata, nascondendo il grigio della scena». […]

 Gian Ruggero Manzoni

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Photo credits: Daniele Ferroni (foto in bianco e nero) e Maria Vitolo (foto a colori)

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