La rapidità con la quale procede la prima lettura – segno inequivocabile della passione profusa dall’autore nella stesura del testo, figlia a sua volta della perizia che gli è propria nella materia: a chi è capace non servono paroloni ridondanti! – lascia però presto spazio alla necessità di un ritorno ad alcuni punti, con consigliato corollario di enciclopedia (cartacea od online) per avere contezza degli innumerevoli eventi, nomi, battaglie e trattati menzionati dal professor Licandro all’interno di quest’ennesimo scrigno di sapere del quale ci fa dono (sempre dello stesso autore non posso non menzionare, per consigliarlo, Cesare deve morire: l’enigma delle Idi di Marzo, Baldini+Castoldi, 2022).
Orazio Licandro è docente ordinario di diverse discipline antichistiche tra Catania e Roma, dopo innumerevoli esperienze all’estero (tra Spagna e Cina passando per Monaco di Baviera) e, pur non avendo mai smesso l’impegno accademico, che non si sostanzia solo in ciò cui ho fatto brevemente cenno, ritiene essenziale la conoscenza delle pagine fondative della nostra Storia europea (la quale ha radici sia nel gentilesimo che nella tradizione giudaico-cristiana) per chiunque ne senta il bisogno: ecco spiegata la motivazione princeps delle sue intemerate nell’ambito della saggistica non (solo) per addetti ai lavori, per quanto, mi ripeto, l’impegno profuso dal professore tra le mura dell’accademia e all’esterno di esse sia il medesimo.
L’argomento di questo corposo saggio, espresso già nel titolo, è tematica che, più che da pensare, ha dato da penare agli esperti, trattandosi di una gestualità liminale posta tra sacro e profano che per secoli interi ha visto – basandosi su di essa, a favore o contro – opporsi ferocemente e al contempo fieramente, i due poteri ecumenici per antonomasia: quello laico, l’Impero e quello religioso, il Papato, per quanto, procedendo nella lettura de Il <<miracolo>> dell’olio, si avrà ben donde della presenza di intenti anche religiosi nel primo e anche laici nel secondo.
Bene o male tutti sappiamo a cosa si allude quando si parla di unzione dei sovrani, gesto dopo il quale soltanto l’ “aspirante regnante” poteva effettivamente dirsi tale, significando quello l’investitura, il “permesso” a regnare da parte della divinità. Ebbene, il libro di Licandro va a scavare in profondità fra le origini di questa gestualità, scovandone origini (o similia) addirittura tra i libri dell’Antico Testamento e le menzioni maggiori tra le pagine di cronache o in documenti fugurativi risalenti a quel periodo burrascoso e turbolento che sta tra la fine (ingloriosa?) dell’Impero Romano d’Occidente e i vagiti di quello che ci hanno insegnato a chiamare (Alto) Medioevo. Ovviamente, stante la supposta cristianità insita nel gesto, non possono essere mancati, nel tempo, i riferimenti al fatto che Cristo significhi “l’Unto”, ma anche quelli – spostandoci nel comparto più imperial-laico – al fons olei miracolosamente scaturito nei pressi del Tevere, ascrivibile fra i prodigia annuncianti la presa del potere da parte di quell’Ottaviano che sarà successivamente detto Augusto.
Anche l’utilizzo del termine vangelo, fondativo di una ben definita religiosità, viene (anche) laicizzato da Orazio Licandro, tramite menzione di quello (pure palesato nel titolo) cosiddetto di Augusto, un documento epigrafico noto come iscrizione di Priene (dal nome della cittadina dell’Asia Minore presso la quale è stata rinvenuta), “opera” (termine virgolettato poiché non del tutto corretto, ma per questioni di spazio spero qualche deroga mi si perdoni) del proconsul Asiae “Paullus Fabius Maximus, uomo di provata fede augustea [il quale] emana un editto con cui ordina all’assemblea […] delle città ellenistiche l’adozione di un nuovo calendario, il cui inizio da quel momento dovrà essere il giorno di nascita del principe: il 23 settembre”. Senz’altro una forte similitudine tra quanto sopra indicato e quanto – tra le molte cose – dal Vangelo (per quanto meglio sarebbe chiamarli, al plurale, Vangeli) religioso è scaturito, ossia l’abbandono del conteggio calendariale precedentemente in uso, sostituito col nuovo, avanti e dopo Cristo.
Anche la promessa di una nuova Età aurea veniente fa sì che i due vangeli (quello sacro e quello profano) possano venire tematicamente avvicinati: tra l’altro, in greco, il termine “vangelo” vale “annuncio”; quindi, l’Età dell’oro annunziata poteva tranquillamente essere interpretata o come quella verso cui avrebbe portato la Pax Augusta o come l’annuncio della grande gioia promessa dalle schiere angeliche ai pastori (in rappresentanza dell’umanità intera) quella notte che tutti ben conosciamo. Ed ecco qui uno degli scoop (mi auguro il termine non faccia crollare verticalmente il già poco valore della recensione) che il professor Licandro ci presenta: quanto la strutturazione della teopolitica paolina abbia desunto da quell’iscrizione, direttamente o indirettamente, cosa che darebbe una volta di più ragione a quanti ritengono Paolo di Tarso più che “l’inventore del cristianesimo”un abile propagandista, mentre l’effettivo istitutore della fede cristiana, basata sulla credenza in Passione, morte e Resurrezione di Gesù detto il Cristo, sarebbe stato l’evangelista Giovanni, “il discepolo che Gesù amava”, tradizionalmente ritenuto il primo sacerdote del nuovo culto.
Innumerevoli altri sarebbero i riferimenti da fare, e tutti posti in quegli appassionanti territori di confine che stanno tra il sacro ed il profano (il puer la cui nascita è prevista nella IV ecloga delle Bucoliche virgiliane è effettivamente il figlio di Asinio Pollione o si allude ad un altro bambino, magari da indicare con l’iniziale maiuscola?) o fra tradizioni certo diverse ma non per forza in opposizione reciproca (si confronti il profetismo anticotestamentario con quello della Sibilla cumana).
E ancora: per quale motivo l’istituzione politica che, semplicisticamente, maggiormente si ritiene la principale utilizzatrice della gestualità dell’unzione dei sovrani, l’Impero (si allude, in questo caso, a quello cosiddetto Romano d’Oriente) in realtà iniziò a ricorrere alla medesima in netto ritardo rispetto ai re medievali menzionati nella titolazione del saggio? Donde la simile trattazione, anche dal punto di vista lessicale, di quanto inerente il futuro Augusto e quanto, invece, l’Unto del Signore?
Le domande a cui Orazio Licandro risponde non sono solo queste, ma innumerevoli altre; col corollario della riflessione di Luciano Canfora, posta in apertura del saggio, ma che io propongo a mo’ di conclusione di queste mie poche e modeste righe, circa la permanenza di questa specifica ritualità nella nostra epoca, in cui sempre più ci si affida all’intelligenza artificiale e si blatera di chip sottocutanei: “Veniva da Gerusalemme l’olio crismale usato dall’arcivescovo di Canterbury il 6 maggio 2023 durante la solenne cerimonia di incoronazione di Carlo III nell’abbazia di Westminster”. Checché ne pensasse Francis Fukuyama, la Storia non è ancora (forse mai) finita.
Alberto De Marchi
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Orazio Licandro, “Il miracolo dell’olio. Dal vangelo di Augusto all’unzione dei re medievali” (con prefazione di Luciano Canfora), Baldini+Castoldi, 2024, 255 pagine, 20 euro