Ci sono libri che non si leggono: si percorrono.
Quello di Paolo Melissi è uno di questi. Storia di Milano in 100 strade (Newton Compton 2025, pp. 256, € 14,90) non è un volume, è un battito cardiaco che si muove sotto l’asfalto. È Milano che parla da sé, come un vecchio pugile che conosce ogni ferita della propria faccia.
Melissi non scrive: cartografa le pulsazioni. Parte dal Duomo — quella montagna di fede e marmo che l’umanità ha trasformato in un’ipotesi di cielo — e, strada dopo strada, decifra le rughe della città come Calvino chiedeva di leggere “le linee d’una mano”.
Il risultato è un atlante sentimentale dove i selciati diventano pagine, le targhe dei civici si fanno versetti, le targhe commemorative diventano lapidi di poesia urbana.
Ogni via custodisce un trauma o un trionfo: via Hoepli, dove l’editore svizzero inventò l’alfabeto tecnico dell’Italia industriale; piazza dei Mercanti, ventre medievale della giustizia e del commercio; via Montenapoleone, che dal monte di pietà è scivolata nel lusso come una santa decaduta; via Gerolamo Morone, dove Manzoni correggeva i peccati d’inchiostro e Leone Leoni accoltellava il figlio di Tiziano — perché a Milano anche l’arte sapeva di sangue.
Melissi, vero “Milanologo”, restituisce una città che non ha bisogno di nostalgia ma di lucidità: quella di chi capisce che il cemento non ha cancellato la memoria, l’ha solo compressa come un fossile.
Il suo tono è gentile ma preciso, quasi archeologico. Eppure, dietro la misura da divulgatore, vibra un’ossessione: dimostrare che Milano non è solo una metropoli economica ma una creatura stratificata, con un cuore celtico, un midollo visconteo e un cervello illuminista.
In un tempo in cui le città vengono ridotte a “brand”, Storia di Milano in 100 strade rimette la toponomastica al suo posto: non marketing, ma destino.
Ogni nome — Duomo, Montenapoleone, Santa Radegonda — è una preghiera fossilizzata, un codice genetico inciso sul muro.
Alla fine, chi legge non ha più l’impressione di conoscere Milano: ha la sensazione di averla attraversata di notte, a piedi nudi, ascoltandola respirare.
Carlo Tortarolo
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Via Montenapoleone
Regno del prêt-à-porter e sede delle più importanti griffe della moda internazionale, via Montenapoleone ha un tracciato che segue l’antico circuito delle mura romane, in corrispondenza del corso del fiume Seveso, che scorre tombinato sotto il manto stradale. Per lungo tempo, fino al XVIII secolo, si chiamava contrada di Sant’Andrea ma, sotto gli austriaci, divenne sede del monte di pietà, per cui fu ribattezzata contrada del Monte di Santa Teresa. Con i francesi, invece, cambiò nome in contrada del Monte Napoleone e, dopo l’Unità d’Italia, il nome venne cambiato in quello attuale.
In questa strada abitarono personaggi che scrissero importanti pagine della storia letteraria e culturale milanese, come il poeta dialettale Carlo Porta, che abitava a Palazzo Taverna, lo scrittore Tommaso Grossi e Pietro Verri. Nel 1840, invece, Giuseppe Verdi vi scrisse il Nabucco. Durante le Cinque giornate di Milano, nel 1848, presso Palazzo Vidiserti − noto per avere un ingresso anche in via Bigli − fu stabilita la sede del consiglio di guerra, presieduto da Carlo Cattaneo, che coordinava le azioni degli insorti contro gli austriaci. Alla fine dell’Ottocento, via Montenapoleone incominciò progressivamente a trasformarsi nella strada del lusso, mentre vi si trasferivano sempre più famiglie nobili, seguite da antiquari e gioiellieri di fama internazionale, ma è a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso che si affermò come una delle vie più importanti del commercio mondiale.
Il 15 aprile 1964, tuttavia, la strada salì alla ribalta delle cronache per una spettacolare rapina. Alle 16:30, due automobili Giulia Alfa Romeo bloccarono il traffico, mentre una terza Giulia si fermò davanti alla gioielleria di Enzo Colombo, che si trovava al civico numero 12. Una quarta vettura, uguale alle altre tre, frenò rumorosamente sul marciapiede. In circa due minuti accadde tutto. Dall’auto davanti alla gioielleria scesero quattro uomini con il volto coperto, tre di loro fecero irruzione nel negozio e intimarono ai presenti di mettersi contro il muro, sotto la minaccia di una pistola e di un mitra. Il gioielliere reagì lanciando una sedia contro i banditi che, da parte loro, infransero la vetrina con una raffica di mitra e fecero manbassa dei gioielli. Poi i rapinatori tornarono in strada, sparando in aria per intimidire i passanti, e non si fermarono nonostante i mattoni che alcuni muratori lanciarono loro addosso da un appartamento al primo piano. I rapinatori, in tutto sette, sparirono a bordo di due auto, lasciando le altre sul posto per bloccare il traffico.
Quella sera, il «Corriere della Sera» lanciò in prima pagina la notizia della rapina in via Montenapoleone, spiegando che il bottino ammontava a trecento milioni di lire. Nei giorni seguenti, la carta stampata alimentò le polemiche sollevatesi sul tema della sicurezza e della prevenzione, correggendo anche il tiro sull’entità del bottino, che doveva superare un valore di trecentocinquanta milioni di lire. Si diffusero anche pochi particolari riguardo ai rapinatori, che non erano identificabili a causa del volto coperto: quello che aveva sparato contro la vetrina indossava impermeabile, guanti neri e un cappello tirolese. Sul marciapiede, invece, era stato rinvenuto un gemello da polsino placcato in oro, e a bordo delle auto un manganello, un cappello marrone e una borsa di pelle vuota. I sospetti si concentrarono su Albert Bergamelli, uno dei componenti del clan dei Marsigliesi. Grazie anche alle soffiate dei banditi locali, infastiditi dalla presenza di concorrenti provenienti da Oltralpe, Bergamelli venne arrestato otto giorni dopo, ma furono necessari quindici mesi d’inchiesta prima di portare in tribunale almeno una parte dei responsabili. Erano Albert e Guido Bergamelli, Giuseppe Rossi, Gerard Barone Didier, Louis Nesmoz, Pierre e Jean Pierre Noël, Jacques Dupuis, Raphaël Dadoun, e il greco Panayotides, che si proclamarono innocenti. La sentenza giunse nel 1966, portando pene tra i tre e i nove anni e qualche assoluzione per gli imputati. Bergamelli riuscì ad andare via dall’Italia abbastanza presto, e riprese l’attività mettendo a segno un numero impressionante di rapine in giro per l’Europa, venne arrestato nel 1976, venendo poi ucciso da un altro detenuto in carcere, nel 1982.