Immaginiamo che io conosca l’autore di una di quelle rare trasmissioni ancora in grado di cambiare il destino di un libro e portarlo al successo tra i lettori.
Ma lo incontro raramente, soprattutto al supermercato: i saluti, poche parole, come sta un amico comune. Niente di più.
Come potrei convincerlo che “Vertical, il romanzo di Gigi Riva” di Paolo Piras, uno dei tanti libri a tema sportivo pubblicati ogni anno e destinati dal sistema, con un po’ di distacco e un po’ di cinismo, agli appassionati dell’argomento, meriterebbe invece un destino più grande, e quindi spazio nella sua trasmissione?
Senza evocare tutta l’araldica dei grandi scrittori dello sport, da Emanuela Audisio, su fino a Ring Lardner, beniamino nientemeno che di Holden Caulfield, gli potrei dire che Paolo Piras, come fosse un Griot africano, ha deciso di raccontarci il mito di una terra lontana, la sua Sardegna, negli anni 60 e 70, e dell’eroe che l’ha raggiunta per vendicarla.
Ma non è sempre così? Non ha qualsiasi eroe – Ercole, Teseo, Giasone, Cadmo, Gilgamesh – dovuto prima trovare e raggiungere il luogo in cui svolgere l’impresa?
L’eroe in questo caso è Luigi Riva, Luis detto Gigi, Rombo di tuono secondo Gianni Brera, Hombre vertical secondo Gianni Mura, nato nel 1944 a Leggiuno, in Lombardia, sul Lago Maggiore, ma dal lato più povero, figlio di Ugo Riva e Edis Rodari, figlio della guerra e poi degli anni del Boom, che però il padre glielo portano via subito, trapassato da una scheggia in fabbrica; figlio del collegio e della povertà, arriverà col talento a riscattare se stesso, ciò che resta della sua famiglia e molto, molto altro.
La terra di cui parliamo è un luogo arcaico, sulla soglia della modernità, che ancora non si conosce, o meglio accetta di conoscersi solo attraverso gli stereotipi che gli fornisce un continente distratto: landa remota, covo di pecorai e briganti, paradiso per nababbi; e per conoscersi davvero, per avere un nome e un posto sulla mappa, avrà bisogno del calcio, di una squadra di imbattibili, di uno scudetto, agguantato nel 1970, e soprattutto di lui, del campione verticale.
Ma non basta. La storia è ancora più fantastica: quel manipolo di eroi, quasi tutti, Riva per primo, si innamora della regione che ha scoperto, riscattato e restituito a se stessa. Al prezzo di rinunce e occasioni d’oro perdute, si fa adottare, si naturalizza, si insedia nel regno che ha fondato, vi resta fino alla morte. E la Sardegna, i sardi, seguendo la propria indole segretamente generosa, non finiranno mai di essergliene grati.
Anche Paolo Piras ha scritto chiaramente questo libro per testimoniare ancora una volta gratitudine: segue da vicino i suoi campioni e il principe tra loro, passo per passo, senza mai mollarli; vuole che nessun dettaglio, nessuna palla di stracci, nessun vetro rotto da un calcio ben mirato di bambino, nessun gol e nessun fallo, nessuno dei tanti momenti memorabili, vada sprecato; segue il trionfo, gli incidenti, le ossa fratturate, cartilagine per cartilagine, campionati e mondiali e Italiegermaniequattrattré, il declino e il riscatto, le maledette sigarette – una per una – e i loro inevitabili danni, lo slancio, la generosità e la depressione, gli scandali inutili e la famiglia benedetta; la fine.
E’ sicuro: non voleva mettersi a scrivere se non per essere tra quelli che si caricano la bara del suo Luis sulle spalle, quando il momento viene.
Per raccontare usa tutti gli strumenti messi a disposizione dalla lingua e dalla retorica: inanella endecasillabi, come fosse un poeta epico; evoca cori a commentare i fatti (o il fato); diventa regista cinematografico – non uno qualunque, proprio quel regista – per raccontare la partita chiave dell’annata dello scudetto (che poi si ripeterà, un anno doppo, in una sorta di amara parodia), il 1970: Juventus – Cagliari, e in giro si potranno riconoscere il buono, il brutto e il cattivo (che poi, forse, cattivo non era).
Nell’addentrarsi nei labirinti della sua Sardegna sfiora il realismo magico, accompagnato dall’ombra di un poeta dialettale, un po’ oracolo, che porta il suo stesso cognome. E poco male se il realismo magico, in letteratura, ormai è moneta scaduta. Qui funziona.
E poi sciorina tutta la sfilza degli aneddoti, quelli raccolti nei bar, dagli anziani sdentati, dai fogli sportivi più sgangherati, quelli noti e ripetuti e quelli dimenticati dai più: Arrica, il dirigente sportivo del Cagliari che “ogni estate si muove tra i banchi del calciomercato con la spregiudicatezza della Locandiera di Goldoni”; Silvestri, l’allenatore sergente, che trasforma la squadra in una naja calcistica; Scopigno, l’altro allenatore, quello dello scudetto, lo scapigliato, “uno che fa vivere l’intera sua panchina in una nube di fumo passivo”, che quando è stanco dirige gli allenamenti dalla finestra della camera d’albergo, che, all’occorrenza si troverà a farla – letteralmente – fuori dal vaso, e nel contesto meno propizio; le eterne risse tra cronisti sportivi di scuole opposte; e ancora i giocatori, come Nenè, il brasiliano, alegria do povo, cioè gioia del popolo, o Mario Brugnera, soprannominato Zanfretta, come il circo, per le sue doti di funambolo, e quell’altro, che ha il brutto vizio di mettere la palla nella sua porta; la notte che Riva passò a confidarsi con De André; le ossessioni dell’Avvocato Agnelli e di tanti altri padroni e padroncini. I rifiuti, tutti i rifiuti, di Gigi Riva.
“Quante storie, a quel tempo, intorno a un pallone”, chiosa l’autore.
Forse nelle grandi librerie non durerà molto. Ma scommetto che questo libro in Sardegna diventerà un piccolo classico, che fra dieci o venti anni lo si troverà ancora negli espositori, perché dell’isola centra l’anima, che Gigi Riva seppe interpretare: “Amare; essere amati; essere lasciati in pace”.
Entro nel supermercato. C’è là l’autore della trasmissione sui libri. Ho il volume con me. Glielo allungo.
Gli dico solo: guarda, tra tante storie d’amore che mi è capitato di leggere nella letteratura degli ultimi venti anni, questa è quella che contiene più amore di tutte.
Poi – mi sembra inevitabile – procedo verso il banco dei surgelati.
Filippo Golia