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Parlare continuare a parlare senza sapere come parlare

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Roberto Roversi

Una volta, avevo vent’anni, non vorrei tu mi giudicassi così ingenuo ora, dissi a Roberto Roversi che ero affetto da una specie di complesso di Penelope, scrivo di giorno e cancello di notte, anche il contrario a volte. E lui: Perché c’è un altro modo? Sottintendeva “di scrivere”.

Torna in mente il sesto comandamento “per scrivere un bel racconto” di Vonnegut che dice più o meno: Sii sadico. lascia perdere quanto siano buoni e innocenti i protagonisti, scrivi in modo che accadano loro cose orribili, così il lettore potrà vedere come si comportano.

Bisogna comprendere che Roversi a un certo punto (dopo la scomparsa di Vittorini) scivolò in un racconto dove la sua vita esteriore, la vita interiore e il resoconto quotidiano dei tre nastri di scrittura coincidevano in un unica forma. La sua gentile severità che altro era? L’offerta ossimorica a tutti di dire e nel contempo l’avvertimento dell’inutilità della scrittura, che solo nella negazione di sé stessa, che solo nella rappresentazione di essere finzione e inganno (o peggio autoinganno) può assumere sé stessa come degna sepoltura nella pagina. Adesso non ho tempo, non ho mai tempo, ci sarà un tempo debito? ma vorrei leggere di nuovo queste sue parole:

“Parlare continuare a parlare senza sapere come parlare

scrivere continuare a scrivere senza sapere come scrivere

pensare continuare a pensare non sapendo cosa pensare e

continuare a voler sapere senza sapere che cosa sapere.”

Luca Sossella

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