Il senso di pace che si avverte sedendosi all’ombra di un grande albero è un’esperienza antica, quasi archetipica, radicata nella natura umana come un atto di fede inconfutabile. Chi scrive ha la fortuna di vivere a pochi passi da un pioppo nero secolare e, quando possibile, si concede il lusso di sostare qualche minuto sulle sue grosse radici. Lontano da notifiche e squilli, respira e ascolta il fruscio delle foglie smosse dal vento, lasciandosi pervadere da un raro senso di gratitudine che spesso, come un impulso primordiale, vorrebbe esprimersi in un abbraccio.
«La amo. La abbraccio, la stringo, sento sulla mia guancia la sua ruvida forza, e mi emoziono. Ho l’impressione di abbracciare l’intero mondo, di stringerlo a me, di udire il remoto respiro della Terra.»
C’è un’istantanea comunanza, dunque, tra ciò che provo e le prime parole di un testo che, fin dalle prime righe, ha la forza catartica di una pausa nella quiete. Più volte mi sono chiesto cosa potrebbe accadere se questo compagno silenzioso sparisse all’improvviso, lasciando dietro di sé soltanto un vuoto sordo. La quercia che dà il titolo all’opera è infatti un simbolo potente, un totem che accoglie e protegge Carlotta, la protagonista, ma che, come ogni creatura vivente, è vulnerabile. Abbattuta da un morbo invisibile e implacabile, la quercia segna il punto di svolta per Carlotta: non più semplice rifugio, ma una ferita aperta, un vuoto che risuona nel suo stesso corpo, già logorato e stremato da anni di lotta.
«Nella radura a sinistra del prato la quercia non c’è più. Di quella creatura che ha sfidato i secoli […] rimane, squadrato dagli occhi increduli e annichiliti della donna, soltanto un basso ceppo chiaro, umido, che allarga le radici come un polpo inerte perché colpito a morte.»
Carlotta, ricoverata in ospedale per l’improvviso malore, sperimenta sulla propria pelle la sindrome di Takotsubo, la cosiddetta “sindrome del cuore infranto”. Il suo cuore simula un infarto e il segnale che manda è lampante: “BASTA”. Basta lottare, basta soffrire, basta sopportare, questa è l’ultima avvisaglia concessa, prima che sia troppo tardi. La fine della quercia appare dunque coma una premonizione: due vite e due sorti legate da un’intimità saldata nella solitudine e nella resilienza.
Per salvarsi occorre fermarsi, respirare a fondo e compiere un passo indietro. Così, stesa sul letto d’ospedale, Carlotta sarà costretta a tornare agli inizi: al suo passato professionale di lupologa, alla ricerca di questi animali sfuggenti e affascinanti. Con Beauregard – che nella sua opera rende omaggio alla lunga carriera di Luigi Boitani – Carlotta si ritroverà a scalare sentieri fisici e della memoria, spingendosi nei recessi più remoti dei Monti Sibillini. Un viaggio a ritroso nella speranza di ritrovare quella “selvaticità” perduta negli anni di accettazione e rinunce.
«Nel suo terrestre purgatorio la donna dovrà imitare la resistenza del lupo, che può stare giorni senza bere, settimane senza mangiare. Il ramo più radicale dell’etologia sostiene che gli uomini devono recuperare quella parte di animalità che la civiltà ha ormai affievolito, logorato, cancellato.»
Il chant d’amour naturalista della Carrano ha l’eleganza di una cavalcata nei boschi e la maestosità di una carteggio che si concretizza prosaicamente in versi alti quanto le cime dei monti chiamati in causa. È un inno all’indipendenza in quattro atti la cui ode riverbera in ogni singolo paragrafo. Il frutto di un lavoro autoriale nato dallo studio dei lupi, in seguito portato avanti negli anni attraverso parole cesellate con perizia e devozione, in grado di guarire attingendo dal dolore. Carrano, alla sua ventiquattresima opera, ci prende per mano per portarci assieme a Carlotta nelle selve più imperscrutabili dell’animo umano per farci comprendere quanto «la fragilità non abbia a che fare con la debolezza».
«Sotto quella meravigliosa cattedrale arborea, si era comunque sentita al timone della sua vita e non alla deriva. Aveva trovato un’altra se stessa, ma assai più forte e capace.»
Il romanzo si spinge oltre la cronaca del dolore individuale aprendosi a riflessioni più vaste sul senso di appartenenza, sulla precarietà dell’esistenza e sulla necessità di trovare un ancoraggio – un albero, un animale fedele come Spinotto (il cane della protagonista), o un ricordo riappacificante. L’introspezione psicologica di Carlotta è profonda, quasi psicanalitica, e la scrittura riesce a restituirla pur mantenendo un costante senso di impalpabilità. Le parole scelte dall’autrice hanno il sapore della confessione e dell’epifania: «La carne di cui siamo fatti ha la medesima tessitura di quella che mangiamo… nessun uomo conosce il sapore della carne umana, ma ritiene normale cibarsi di altre carni».
In un’epoca dominata da connessioni frenetiche e da una superficialità diffusa, questo romanzo ci invita a rallentare, a riscoprire la sacralità del corpo e delle emozioni più profonde, a celebrare la natura non come bene di consumo, ma come parte viva e imprescindibile della nostra memoria individuale e collettiva. La sua scrittura si muove leggera e aggraziata come un balletto di foglie sospese nel vento, scardinando metrica e convenzioni narrative. È un organismo, letterario e biologico insieme, che segue un proprio ritmo interno, libero e imprevedibile come una nube: una rivelazione su ciò che siamo disposti a perdere, e su ciò per cui vale ancora la pena resistere.
Stefano Bonazzi
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Il cuore infranto della quercia
Patrizia Carrano
Aboca Edizioni
17,00 euro — 228 pagine