La direzione delle cose: ≪Le cose devono andare in modo che gli uomini vengano rispettati quando si sforzano di diventare uomini≫
Torna in libreria Crudeltà di Pavel Nilin (readerforblind 2025 pp. 300, € 18,00 con prefazione di Antonella Nocera).
È un tuffo nel freddo tagliente della taiga siberiana, un viaggio nell’anima di un’epoca feroce e contraddittoria. In Crudeltà, Pavel Nilin trascina il lettore nella Russia degli anni ’20, un tempo sospeso tra speranza rivoluzionaria e repressione brutale.
Attraverso gli occhi penetranti di Ven’ka, un giovane funzionario di polizia, il romanzo scava nelle profondità morali dell’individuo costretto a scegliere tra l’etica personale e la rigida disciplina di partito: ≪Si deve o no possedere una coscienza comunista?≫. Nilin non offre risposte semplici, ma una verità scomoda e complessa che obbliga a interrogarsi sul confine tra giustizia e crudeltà.
Si combatte il presente con la fede nel futuro: ≪Col comunismo molte cose cambieranno≫.
Con uno stile asciutto e incisivo, che richiama le cronache più spietate della letteratura russa, Nilin mette in scena personaggi di grande umanità, capaci di straordinario coraggio e sconvolgente durezza. Banditi romantici e funzionari pragmatici si fronteggiano in una partita a scacchi dove in gioco è molto più che la sopravvivenza.
È l’anima stessa di una nazione che cerca, invano, di scrollarsi di dosso le catene del passato convinta di essere dalla parte della verità: “Per me, la menzogna è segno di paura. I borghesi vi ricorrevano perché temevano che la verità fosse contro di loro. Noi invece possiamo dire sempre la verità, non abbiamo nulla da nascondere”.
Crudeltà non è solo un racconto storico: è una riflessione potente sulla natura umana, un’opera che lascia il lettore senza fiato, sfidandolo a guardare direttamente nell’abisso del cuore umano e delle sue vane speranze.
Un libro per chi ama la grande letteratura, capace di lasciare cicatrici profonde e domande impossibili da dimenticare. È una lettura che assomiglia al vento gelido: penetra nella pelle e brucia gli occhi. Eppure accende un fuoco che non si spegne mai del tutto, costringendoci a riconoscere nel dolore e nella crudeltà il riflesso delle nostre verità occulte. Nilin ci ricorda che la dignità non sopravvive nei proclami, ma nella coscienza di chi resiste alla menzogna.
Pavel Filippovich Nilin (1908-1981, Irkutsk), scrittore, drammaturgo, sceneggiatore e giornalista sovietico, debuttò nel 1936 su “Novy Mir”. Con il romanzo A Man Goes Uphill (1939) romanzo sui minatori del Donbass, adattato per il cinema con il titolo A Great Life, vinse il Premio Stalin. Tra le sue altre opere note: About Love (1940), Going to Moscow (1954) e The Trial Period (1955).
Carlo Tortarolo
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Un mezzogiorno, mentre infuriava una spaventosa tormenta di neve, o meglio una bufera che durava dalla sera prima, giunse da noi tutto coperto di neve il miliziano Semen Vorob’ev e ci comunicò la notizia: «La banda di Kločkov è uscita dalla taiga e si è portata sulla strada maestra».
In pieno inverno, nessuno si aspettava una novità del genere.
La sera prima, nei pressi del podere Marevaja, tra Buer e Revjaka, dove la strada di Utuliks si biforca, la banda aveva teso un’imboscata, aveva ucciso tre membri di una cooperativa, si era impadronita di alcuni carri e, nonostante la tormenta, si era spinta in avanti, verso il Passo dell’Oro.
«Così sono venuto subito da voi» concluse Vorob’ev, ravvivandosi tranquillamente i capelli bagnati con un grosso pettine. «Sono venuto direttamente, senza perdere tempo».
«Tutto è chiaro» sentenziò il capo, aggiustandosi le stanghette degli occhiali dietro le orecchie. E senza più prestare ascolto a Vorob’ev, staccò dalla parete una carta militare. «Kločkov crede che la tormenta spazzi via ogni traccia, ma è uno sciocco. Ascolta, Malyšev, tra quaranta minuti io sarò qui», indicò un punto sulla carta. «Tu, con il tuo gruppo, dovrai fermarti qui», e parve avvitare un dito sul foglio. «E che nessuno si muova senza un mio ordine. Da qui», e spostò il dito, «chiederò agli allievi della scuola militare di sostenerci. Per il momento importa che Kločkov non esca dal Passo dell’Oro. Chiaro?»
«Secondo me…».
«Non chiedo la tua opinione sul mio piano. Chiaro?», lo interruppe il capo.
«Chiaro», annuì Ven’ka.
«Ebbene, all’opera!», ordinò il capo. «E ricorda: non prendere iniziative! Se la banda ripiega, seguine le tracce. È il sistema migliore».
Entro sera, l’operazione era già conclusa. Ero al mio tavolo per il turno di notte quando dal Passo dell’Oro arrivarono sette banditi arrestati e otto uccisi. Fra questi c’erano l’ex štabskapitan1 dell’armata di Kolčak, Evlampij Kločkov, e il suo aiutante quindicenne Zubok che, a quanto si diceva, era stato raccolto ancora bambino da Kločkov, chissà dove, durante la guerra civile.
In attesa dell’identificazione, i morti vennero ammucchiati sulla neve nel cortile dell’ufficio, dove giacquero nell’oscurità, come travi di legno. Presi una lanterna e uscii. Ven’ka Malyšev, con un giaccone di pelle di pecora buttato sulle spalle e un berretto mongolo di pelliccia di volpe, stava passeggiando su e giù davanti ai cadaveri. Chiesi come si era svolta l’operazione.
«In maniera sciocca» disse Ven’ka, e accennò ai cadaveri. «Guarda che ha combinato quell’epilettico di Iosif Golubčik…».
Sapevo che Golubčik non gli andava a genio, ma sul momento non riuscii a comprendere perché fosse arrabbiato. Stupito, sollevai la lanterna sui cadaveri e chiesi: «Non li ha ammazzati tutti lui, per caso?» «Oh, no», replicò Ven’ka. «Kločkov, questo qui, lo ha steso Kolja Solov’ev. E questo», e con il piede toccò un cadavere, «pare l’abbia colpito io. Questi altri, gli allievi della scuola militare…».
«E Golubčik?»
Non rispose. Era chino sul cadavere di Zubok, che giaceva nella neve, avvolto in un bel cappotto nero guarnito d’astrakan, senza berretto e con i capelli biondi ancora in ordine. «Guarda dov’è stato colpito» disse Ven’ka, sbottonando il cappotto. «Dritto al cuore. Brutto porco! Ma chi gliel’ha chiesto di uccidere un ragazzino?»
Compresi ch’era stato Golubčik a uccidere Zubok, ma non condividevo lo sdegno di Ven’ka, e dissi: «Dopotutto, non puoi scegliere lì per lì, in quei momenti di furia, chi uccidere e chi risparmiare. Se non uccidi, ti uccidono».