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Piero Meli anteprima. Piccoli miracoli sotto la pioggia

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I palazzi di Milano hanno denti affilati. La città ti rincorre fino a quando non ti ha agguantato. Ti prende tra i suoi artigli e ti fa suo. Ti mastica con voracità e poi ti sputa sull’asfalto, maciullato, come un boccone indigesto dal sapore acre, sgradevole. Però se ti rigetta in una giornata di pioggia ha un unico e preciso intento: annebbiare e celare tutti i colori alla tua vista, per poi farli riemergere più puri, più vivi, più sinceri. E mostrarteli.

È la fisicità che la città sa concederti: un nuovo spazio, la credibile alternativa di poterti finalmente lavare, strofinare con vigore fino a scollarti dalla pelle i granelli di polvere che hanno ormai formato una spessa crosta, una corazza fuligginosa che da tempo nasconde la tua vera identità per proteggerla e occultarla al mondo. E a te stesso.

Piccoli miracoli sotto la pioggia, l’ultimo romanzo di Piero Meli in uscita il 4 luglio per Giulio Perrone Editore, è la volontà di fissare un peculiare istante nella frenetica Piazza San Babila di Milano quando, sotto un acquazzone scrosciante, diviene il palcoscenico sul quale si raccontano e raccordano esperienze di persone lì presenti in strada, negli appartamenti adiacenti, nei negozi, nei taxi. La piazza diviene così un nucleo pulsante e palpitante di persone ciascuna delle quali porta con sé una sofferenza segreta che vorrebbe poter condividere per agevolarne la caducità. È l’incedere disilluso di un’interiorità che fatica a riconoscersi ma che, passo dopo passo, abbandona inconsapevolmente sui marciapiedi un’impronta indelebile di sé, preziose informazioni e stati d’animo. Tracce private da dover ricongiungere poi tra loro per potersi riconoscere come anime sotto il medesimo cielo.

Così, i capitoli, ognuno denominato con il nome personale del personaggio che si racconta in quelle pagine, sono le esperienze di sedici persone che in quel frangente ricordano e si interrogano intimamente. Un universo umano che con caparbietà resiste al quotidiano e che diviene una costellazione di relazioni che interagiscono, anche se del tutto ignare le une alle altre, e che ha la capacità di creare luminosità. Speranze, sofferenze, pensieri amari, sogni che si sgretolano ma che non smettono di cercare una propria dimensione futura: a riprova di ciò ogni sezione termina con una frase, una riflessione, un’idea per una nuova realtà vitale che non sia più solo un rigurgito di sopravvivenza.

Con una scrittura abile, attenta, delicata nel narrare il flusso dei pensieri di ogni protagonista, Piero Meli intreccia ogni capitolo con riferimenti quasi casuali a un personaggio o a un interno già citato, collegando così fatti e persone, luoghi ed eventi, tracciando precise connessioni che garantiscono unità e armonia al romanzo, sottolineando i destini che inevitabilmente si incrociano tra loro. Il destino per l’appunto, lo scandire del tempo che modifica il futuro di tutti, pagina dopo pagina.

Una pioggia che sorprende e che inzuppa gli occhi di ricchezze inaspettate: gli sguardi divengono autentici, i sentimenti puri, gli incontri piacevoli. Le emozioni sinora inespresse fluttuano e respirano. Non è magia, è il fato che gioca vigorosamente le sue carte.

È infatti sufficiente un guizzo, un’immagine, un odore, spesso un colore, e il mondo sembra fermarsi, il fiato trattenersi. È in quell’istante che inizi a sentirti vivo, quando tutto intorno si blocca e intuisci, percepisci, che la tua presenza nel mondo è sostanziale. Qui, in particolare, una donna con il cappotto rosso attrae istintivamente l’attenzione di ciascuna delle voci narranti e il presente viene stravolto e capovolto.

Così penserà Paolo:

Una visione di pelle bianca e labbra vermiglie. Una donna attraversa la strada di fianco a noi. La pioggia, che fino a un attimo prima era un fastidio liquido, insopportabile, sembra parte di un quadro dipinto apposta per incorniciarla. Indossa un cappotto rosso, talmente attillato che sembra una seconda pelle. Vernice fresca gettata sul suo corpo. Ogni curva è scolpita, ogni dettaglio del tessuto aderisce con una precisione che non lascia spazio alla fantasia.”

Così Chiara:

Indossa un cappotto rosso, fradicio, che disegna ed esalta la sua figura. Non riesco a staccarle gli occhi di dosso. Cammina decisa. Ogni passo sembra una scelta. Voluta, fiera. Non accelera, non si ripara. Il rosso del cappotto risalta sul suo incarnato diafano”

Il romanzo è volutamente il fotogramma di quell’imprescindibile istante:

Il rosso. Sempre il rosso. Goya lo usava per le passioni più feroci. Schiele per gli spasimi della carne. Bacon per la disperazione che divora. Non è solo un colore. È un urlo.” Il rosso è pertanto il trait d’union di tutta l’opera, il grido interiore che riecheggia in ogni protagonista mentre di sfuggita lo osserva e sembra travolto da un’improvvisa scarica elettrica. Come le secchiate d’acqua che il cielo sta sfogando su Milano, così quella tinta risveglia gli animi e le menti fino a poco prima offuscate e intorpidite. È foriero di possibilità, di opportunità. Ma il rosso – il cappotto della donna – è anche la raffigurazione della precarietà dell’esistenza: un attimo prima lei è transitata fiera, poco dopo è in fin di vita sull’asfalto, investita da un mezzo.

Prologo ed epilogo, in significativo e drammatico contrasto tra la bellezza di questa ragazza e l’accadimento doloroso, sono un inizio e una fine circolare, l’abbraccio protettivo che ingloba, accoglie e difende l’unicità delle esistenze di tutti gli attori che tra questi due opposti si muovono, tra un prima e un dopo. Vite vissute posate dall’autore con garbo e delicatezza sull’altare delle possibilità esistenziali che divengono silenziosa preghiera, l’immensa fiducia di chi si affida con cuore a ogni istante prezioso del tempo che scorre. E lo fa proprio. Lo vive appieno. Quell’istante, quel respiro, qui. Ora.  Perché il futuro prossimo sarà una giornata senza pioggia e allora Milano ricomincerà a mordere e tu ti ritroverai catapultato a correre senza tregua. Di nuovo. Ma vivo.

La pioggia cade, ma non la sento. Qualcosa si scioglie. Si stacca. Non fa male. È una tregua. Galleggio, eterea. Milano è sullo sfondo. Piazza San Babila è deformata. I contorni sfumano. Le luci tremano. Vedo ombrelli. Mani. Occhi. Ma tutto è opaco. Tutto si dissolve. Sento echi. Voci lontane. Figure che transitano… una barista, un uomo in un taxi, un ragazzo su una bicicletta. Mi attraversano. La città non si ferma. Non ascolta. Non ha pietà. E io? Sospesa. Resto. In mezzo. Tra il prima e il dopo. Né viva. Né morta. In ascolto. Non sarò il principio. Né la fine. Sarò l’istante che sfiora. Il dubbio che trattiene. Il silenzio prima del passo. Una presenza lieve. Una deviazione minima. Quasi niente. Forse tutto. Saranno piccoli miracoli. Sotto la pioggia.”

Chiara Gilardi

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Milano mi appartiene. La percorro, la osservo, la domino. Mi muovo tra i suoi angoli in cerca di volti che raccontino qualcosa. Qualcosa che solo io so vedere. Il riflesso cangiante dell’asfalto bagnato è per me una conquista, un trofeo, una specie di premio per qualcosa che ho saputo cogliere, solo io. Lo sguardo dei passanti è basso, ombrelli neri svettano come corvi appollaiati sulle loro teste. Io sono l’unico a camminare a testa alta, il solo veramente vivo, sotto questo cielo esanime.

Sono Carlo Ventura, il miglior fotografo di moda della città, attraverso la folla con il piglio di chi possiede una mappa segreta, di chi sa come muoversi per dominare il mondo. Le mie scarpe eleganti sfiorano l’asfalto, nemmeno la pioggia stravolge la mia mise impeccabile. Sono un uomo impermeabile agli eventi atmosferici e alle facili emozioni.

Ogni tanto mi fermo per osservare la gente intorno: manager in cravatta con lo sguardo vuoto, studenti smarriti, giovani donne che corrono trafelate verso chissà quale appuntamento. Tutti mi appaiono schiacciati tra l’incudine di un obbligo e il martello di un desiderio inespresso. Hanno qualcosa d’incompleto, forse una semplice mancanza di consapevolezza, una specie di ottusità nel cogliere la bellezza nascosta nella città che pure attraversano ogni giorno.

Io non sono come loro che si muovono indifferenti. Osservo. Vedo quello che gli altri ignorano: un taglio di luce su un palazzo, una piega sul volto di una sconosciuta, una simmetria nascosta nel caos.

Oggi voglio cogliere tutto questo. Voglio raccontare Milano, la mia città, come nessuno ha mai avuto il coraggio, o l’occhio, di fare. Cogliere l’essenza che si nasconde tra pioggia, cemento e carne.

La direttrice della rivista per cui lavoro mi ha dato poche indicazioni: «Voglio che si veda una città diversa, Carlo. Una Milano che mai nessuno ha fotografato. Qualcosa che sorprenda davvero. Mi aspetto il massimo».

Ho annuito. «Il massimo è quello che faccio ogni giorno».

Lei non ha risposto. Ha solo stretto le labbra.

Io ho preso la mia fidata Leica e sono sceso in strada, convinto che nessuno meglio di me saprebbe ritrarre la città sotto una pioggia torrenziale, dipingendola come una regina severa e indomabile.

Milano è mia, e io catturerò la sua anima. Dietro l’obiettivo tutto ha un senso. O almeno, ne ha uno che posso controllare.

Uscendo dalla sede della redazione ho incontrato una collega, una di quelle aspiranti fotografe che mi chiedono sempre consigli senza poi ascoltare davvero le risposte. Le ho detto: «Ricordati che per essere qualcuno, prima devi sentirti qualcuno. Nessuno ti darà mai quello che non hai il coraggio di prenderti».

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Piero Meli, Piccoli miracoli sotto la pioggia, Giulio Perrone Editore, pp. 160, euro 17,00.

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