
Raccontare la storia di Giuseppina Pasqualino di Marineo, in arte Pippa Bacca, non è semplice.
Non perché manchino i fatti.
Ma perché ci vuole una mente aperta e un cuore disposto a non giudicare il diverso, ma ad ascoltarlo davvero.
E Pippa, sì, era diversa.
Diversa nel modo di vivere, di creare, di amare il mondo.
E il diverso, si sa, viene spesso frainteso. Quasi sempre attaccato.
Pippa nasce a Milano il 9 dicembre 1974, in una famiglia nobile: i Pasqualino di Bari, titolo trasmissibile però solo ai maschi. Peccato che dall’unione tra Elena Manzoni (sorella del celebre artista concettuale Piero Manzoni) e Guido di Marineo, nasceranno cinque figlie femmine. Nessun erede maschio.
Già da lì, la storia prende una piega tutta sua.
Guido lavora nella pubblicità, nel mondo della comunicazione; Elena, invece, è l’anima spirituale e culturale della famiglia. Dopo la separazione dei genitori – Pippa ha appena cinque anni – Elena si trasferisce con le figlie in un alloggio Aler in Corso Garibaldi, a Milano.
È lì che la casa si trasforma in un piccolo centro culturale: ogni settimana si tengono feste, incontri, cene con amici e sconosciuti. Si cucina, si canta, si condividono idee e stoviglie da lavare.
Non è mondanità, è accoglienza.
È educazione all’apertura.
È: “la casa è nostra, ma anche vostra.”
Le cinque sorelle crescono unite da un legame quasi mistico.
“Siamo parti di un solo neurone”, diranno. Sempre vestite uguali, perché se un vestito non era disponibile per tutte, semplicemente non si comprava. 

Solidarietà emotiva e stilistica: roba forte.
Nella loro famiglia, il viaggio è un rito sacro. Non da turisti, ma da pellegrine. Cercatrici.
Elena compra un furgone colorato, lo chiama Arlecchino, e porta le figlie in giro per l’Italia e l’Europa.
Nel 1986, Arlecchino viene distrutto in un incidente.
Da lì, entra nelle loro vite l’autostop. Non come scelta temeraria, ma come atto educativo.
Un gesto di fiducia nel prossimo. Un’espressione di fede.
Anche Piero Manzoni, lo zio artista, scriveva nei suoi diari del viaggio in autostop.
Il primo viaggio importante della famiglia? Il ritorno a casa a piedi dal Cammino di Santiago, con la più piccola delle sorelle che ha solo sette anni.
La loro non è una famiglia hippy, come qualcuno superficialmente potrebbe pensare. È una famiglia credente, praticante, in cui la spiritualità convive con l’arte e la libertà. Elena diventa anche priora della Confraternita di San Giacomo, sostenitrice di un cammino solitario, trasformativo. Un viaggio da fare con se stessi, prima che con gli altri.
Crescendo, le sorelle trovano strade diverse ma restano unite.
Rosalia lavora nella Fondazione Piero Manzoni.
Antonietta si laurea in architettura e si dedica al catering.
Valeria è maestra d’asilo.
Maria studia geologia, ma collabora con Antonietta.
E Pippa? Pippa è arte. Arte che cammina, che interroga, che crede.
Per lei l’autostop diventa linguaggio, azione artistica, atto politico.
Credeva nella bontà del mondo, nell’incontro col diverso come occasione di crescita.
Credeva che la fiducia fosse la più potente delle rivoluzioni.
E credeva che la pace potesse attraversare i confini, le guerre, i pregiudizi.

“Brides on Tour – Spose in Viaggio”
L’idea è attraversare 11 Paesi segnati da conflitti armati e violenza – dall’ex Jugoslavia fino a Israele – in autostop, vestite da spose, come due donne in cammino verso un matrimonio simbolico tra i popoli.
Alla fine del viaggio, avrebbero dovuto lavare insieme il vestito bianco a Gerusalemme, in una cerimonia pubblica. Un gesto per eliminare le scorie lasciate dalla guerra.
Un atto di pace, disarmato ma potentissimo.
Ma quel viaggio non arriverà mai alla fine.
Un gesto di fiducia tradito.
Il 20 marzo 2008, Silvia Moro e Pippa si separano per proseguire autonomamente alcuni tratti del viaggio. È una parte prevista del progetto.
Pippa resta in Turchia, dove avrebbe dovuto fermarsi solo pochi giorni. Ma da lì, non ripartirà più.
Il 31 marzo, a Gebze, viene assassinata.
Aveva chiesto un passaggio a un uomo, Murat Karataş. L’aveva fatto con il solito spirito di apertura, di fiducia. Ma quella fiducia viene tradita con violenza. Viene prima violentata, poi uccisa. Il suo corpo verrà ritrovato 11 giorni dopo, abbandonato in una zona isolata.
Le autorità turche si muovono rapidamente. Karataş viene identificato e arrestato grazie all’uso del telefono cellulare e delle carte bancarie sottratte alla vittima.
Verrà condannato all’ergastolo.
Una sentenza esemplare, che riconosce non solo la gravità del crimine, ma anche la portata simbolica dell’atto che ha spezzato.
Anche lo Stato italiano segue da vicino il caso, collaborando nelle indagini e sostenendo la famiglia nel percorso giudiziario.
Ma nulla può restituire ciò che è stato perso.
Il viaggio che non si è fermato
Pippa Bacca voleva lavare il suo vestito bianco a Gerusalemme, in un rito simbolico di purificazione.
Non ha potuto farlo.
Ma quel vestito, quella camminata, quel gesto d’amore verso l’umanità, continuano a parlare.
La sua morte ha scosso il mondo, ma non ha annullato il suo messaggio. Anzi, lo ha reso ancora più urgente. 

In suo nome sono nati progetti, eventi, mostre, performance.
La sua storia viene raccontata nelle scuole, nelle università, nei laboratori d’arte.
È diventata un simbolo, non di ingenuità, ma di coraggio radicale.
Pippa Bacca ci ha lasciato un’eredità viva:
una domanda scomoda, ma necessaria:
che cos’è la fiducia, e quanto siamo disposti a rischiare per difenderla?
Perché chi crede nel bene, anche quando viene colpito, non viene sconfitto.
Il bene cambia forma. Si trasforma. Ma continua a camminare.
Come lei.
Francesca Mezzadri