Quando ho preso in mano La conquista dell’infelicità di Raffaele Alberto Ventura pensavo di leggiucchiarlo qua e là, come si fa con quei saggi che si sfogliano prima di andare a dormire. Invece, dopo poche pagine, è successo qualcosa di inaspettato: non riuscivo a smettere. Mi ha risucchiato come un romanzo, e volevo sapere come sarebbe andata a finire – se il protagonista, cioè il rappresentante della classe media della nostra epoca intellettualizzata, si sarebbe salvato o meno.
Ventura scrive proprio bene: il libro è pieno di riferimenti a film, romanzi, filosofia, cultura pop, ma non scivola mai nel pedante o nel didascalico. È brillante, ironico, persino divertente, pur raccontando una tragedia quotidiana: quella del disagio della classe media, che vive sospesa tra la promessa di autorealizzazione e l’impossibilità concreta di mantenerla. L’idea centrale – che è sempre quella di Teoria della classe disagiata uscito ormai otto anni fa – è che il nostro malessere nasca da una discrasia: da una parte l’ambizione di realizzarci pienamente – essere creativi, liberi, unici, felici – e dall’altra un sistema economico e culturale che non può garantire a tutti il compimento di questa promessa romantico-capitalistica. È un gioco truccato: ci hanno convinto che la felicità sia una gara, ma la linea del traguardo si sposta sempre un po’ più in là.
Il risultato è che viviamo dentro un paradosso: siamo la parte del mondo più ricca, quella che consuma nove decimi delle risorse del pianeta pur essendo solo un decimo dell’umanità, eppure non siamo felici. Nemmeno ce ne rendiamo conto, tanto i nostri bisogni artificiali sono diventati una seconda natura. Ventura non lo dice per moralismo, ma per constatazione: il nostro modello di vita e di realizzazione personale non è sostenibile – né psicologicamente, né ecologicamente.
Ci sono intuizioni geniali disseminate nel libro. Per esempio l’aggiornamento della celebre profezia di Andy Warhol: non saremo più “famosi per quindici minuti”, ma “famosi per quindici persone” (che poi sarebbero i follower “attivi”). Ma anche questa micro-fama sa farsi tossica, perché alimenta una competizione senza fine, una guerra di tutti contro tutti per essere riconosciuti in quanto “noi stessi”. Del tutto comprensibile in una società ove il disagio è ormai “fornito in dotazione con lo smartphone”.
È impossibile, leggendo, non specchiarsi un po’ nel quadro che traccia. Chiunque lavori o aspiri a lavori cognitivi, chiunque abbia velleità creative o intellettuali (ma non solo), non può evitare di pensare a se stesso. Mi sono chiesto: se avessi letto questo libro a sedici o diciott’anni, avrei sofferto meno nei miei piccoli fallimenti da aspirante qualcosa? Probabilmente non lo avrei capito, o meglio, non avrei voluto capirlo. Ero troppo immerso nei sogni che il capitalismo mi aveva promesso – “diventa ciò che sei”, “segui la tua passione”, “il successo arriverà se ci credi abbastanza”. Poi, certo, ho deciso di studiare filosofia e ho incontrato Nietzsche, e da lì non si torna più indietro.
Ventura non offre soluzioni facili, diciamo che non ne offre affatto. Dice, onestamente, che piccole riforme non basterebbero, che servirebbe una
rivoluzione culturale profonda, un ribaltamento del nostro modo di pensare la vita e la realizzazione. Il futuro, per ora, non promette nulla di buono. Non tutti potranno “diventare se stessi”, perché il carro dei vincitori, come insegna il capitalismo, è piccolo e stipato. E se c’è una cosa che il sistema sa fare benissimo è convincerti che, se non riesci a salirci, la colpa è tua. Il risultato è doppio: da una parte nasce il risentimento, dall’altra si alimenta un’industria che ti spinge a erodere il tuo capitale economico per accumulare capitale culturale e sociale – corsi, esperienze, master, viaggi, networking – nella speranza di realizzarti, anche se, statisticamente, non ce la farai.
Ma forse il problema non è tanto il bisogno “romantico” di autorealizzarsi, quanto la concorrenza fratricida che questo sistema genera. È quella che ci fa male davvero. L’idea che ogni desiderio – scrivere, cantare, creare, insegnare, fare ricerca – debba trasformarsi in mestiere, in fonte di reddito, in lotta per la sopravvivenza economica. Il diritto di esprimersi è subordinato alla sua monetizzazione. E quando sempre più persone vogliono vivere di ciò che amano, credendo alle promesse di felicità, la competizione si fa inevitabilmente più feroce, perché lo spazio è limitato. È ovvio, eppure fingiamo di non vederlo.
Io stesso provo una grande soddisfazione nell’essere pubblicato, nel sapere che qualcuno mi legge e mi riconosce come autore (pur non campando dei miei libri) – è umano, e giusto. Ma il sentimento di felicità, inteso come “sentirmi me stesso”, arriva prima, quando il libro lo sto pensando e scrivendo, quando tutto è possibilità e gioco, non ancora mercato. Forse è lì che sta la chiave: il nostro disagio nasce dal fatto che abbiamo confuso il lavoro con la vita, e la produttività con il senso.
Credo che il nodo sia economico e dunque culturale e viceversa. Se il lavoro non fosse l’unica – o la principale – fonte di reddito, se avessimo una maggiore libertà dal vincolo del “guadagnare per esistere”, forse saremmo tutti un po’ meno infelici. Potremmo permetterci di fare cose per il semplice piacere di farle, di scrivere, cantare, costruire, studiare senza doverle trasformare in carriere o in strategie di sopravvivenza. Anche perché spesso e volentieri trasformare una passione in mestiere significa tradirla piegandosi a quello che il mercato chiede. Forse allora ci basterebbero davvero quelle “quindici persone”, un riconoscimento umano, non di mercato.
Bella utopia, penserebbe Ventura. Perché, anche se riuscissimo davvero a liberarci dall’obbligo di trasformare ogni talento in un mestiere, ogni passione in un lavoro, il problema resterebbe: non è sostenibile per tutti. Anche una società che ci garantisse di vivere senza lavorare – o lavorando meno – finirebbe comunque per scontrarsi con la realtà dei limiti: delle risorse, delle energie, dei desideri infiniti che non si possono moltiplicare all’infinito. Ogni sogno di felicità universale rischia di riprodurre la stessa promessa romantico-capitalistica che critica: quella che dice “possiamo tutti essere liberi, creativi, realizzati”. E invece no, non possiamo – almeno non tutti nello stesso modo e non nello stesso tempo.
Non ci sarà rivoluzione finché continueremo a pensare la felicità come un diritto individuale da conquistare, e non come un equilibrio collettivo da costruire. Il mondo, insomma, non può sopportare miliardi di artisti felici e autosufficienti. Qualcuno dovrà pur badare alla bolletta della luce. E allora sì, la “bella utopia” rimane un sogno, ma un sogno necessario, perché anche solo immaginarlo ci ricorda che la nostra infelicità non è colpa nostra: è un effetto collaterale di un sistema che ci ha insegnato a desiderare troppo e a condividere troppo poco.
Stefano Scrima
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Raffaele Alberto Ventura, La conquista dell’infelicità. Come siamo diventati classe disagiata, Einaudi 2025.