Negli anni Settanta, alcuni psicologi e sociologi vollero dimostrare fino a che punto l’essere umano fosse capace di infliggere dolore ai propri simili. Non era questione di mostri, né di eccezioni: si trattava di uomini e donne comuni, persone qualunque messe nelle condizioni di poter prevaricare un altro individuo senza conseguenze.
Nel 1971, lo psicologo Philip Zimbardo allestì un esperimento che lo avrebbe reso famoso: divise un gruppo di studenti in guardie e prigionieri e scoprì che il confine tra civiltà e brutalità era più sottile di quanto si pensasse. Bastava dare a qualcuno una divisa e un potere, e quel qualcuno lo avrebbe esercitato fino all’estremo.
Dieci anni prima, Stanley Milgram aveva dimostrato qualcosa di altrettanto inquietante: l’uomo era capace di infliggere dolore non per odio, non per vendetta, ma semplicemente perché un’autorità glielo ordinava. Bastava che una voce sicura gli dicesse “fallo”, e lo avrebbe fatto.
Ma non fu solo la psicologia a esplorare il lato oscuro dell’uomo. Anche l’arte ci si tuffò dentro, senza filtri, senza ipocrisie. Non attraverso le parole, ma attraverso i corpi, lo spazio, il gesto.
Tra tutti, Marina Abramović spinse questa ricerca oltre ogni limite. Il suo esperimento non si svolse in un laboratorio, ma in una galleria d’arte. Non c’erano scienziati a prendere appunti, solo una donna in piedi e un pubblico lasciato libero di agire. E i risultati furono sconvolgenti.
Napoli, 1974.
Nella galleria Studio Morra l’aria era densa di attesa. Il pubblico entrava alla spicciolata, osservando la scena con curiosità. Si piazzò al centro della sala, immobile come una statua. Marina Abramović, vestita di nero, con lo sguardo fisso nel vuoto per sei ore di pura incoscienza, accettando qualunque cosa le sarebbe accaduta. Non solo la sua pelle, ma la sua anima stessa veniva messa in vendita. Sei ore a disposizione. Nessuna reazione. Nessuna resistenza.
Accanto a lei, un lungo tavolo con settantadue oggetti. Alcuni innocui, quasi romantici: una rosa, del miele, un profumo, una piuma. Altri decisamente meno rassicuranti: coltelli, un’ascia, catene, una pistola con un proiettile.
Le regole erano chiare. Il pubblico poteva fare di lei quello che voleva.
Le prime ore furono quasi tranquille, la gente esitava, curiosa ma rispettosa, come se non sapesse come trattare una persona ridotta a puro oggetto. All’inizio furono timidi. Qualcuno le porse una rosa, qualcun altro le mise un po’ di miele sulle labbra.
All’inizio, il pubblico esitò. Qualcuno le accarezzò i capelli. Qualcuno le spruzzò addosso il profumo. Un altro le porse del pane, quasi con tenerezza.
All’inizio sembrava quasi una veglia funebre. Silenzio, sguardi, passi lenti. La gente si avvicinava con cautela, come se Abramović fosse fatta di porcellana. Qualcuno le sfiorò il viso, qualcuno le accarezzò i capelli, qualcun altro prese una piuma e si divertì a farle il solletico. Tenerezze da dilettanti.
Poi, lentamente, l’atmosfera, la situazione cambiò. La gente cominciò a spingersi oltre. Sempre un po’ di più.
Il cartello era lì, chiaro come una sentenza:
“Ci sono 72 oggetti sul tavolo che possono essere usati su di me nel modo in cui desiderate. Io sono l’oggetto. Mi assumo completamente la responsabilità di quello che faccio. Durata: 6 ore, dalle 20:00 alle 2:00.”
72 oggetti: fiori, piume, acqua, miele, pane… coltelli, catene, un’ascia, una pistola carica.
La gente era libera di fare ciò che voleva, senza paura di conseguenze.
“Usami come vuoi” era la password.
Nessuna metafora, nessun gioco di parole. Marina Abramović si offriva completamente, annullandosi come individuo. Non c’era più una donna, c’era un corpo a disposizione. Quando la gente capì che non ci sarebbero state conseguenze, che tutto era concesso, che lei non avrebbe reagito, il confine si spezzò. La rosa divenne un’arma. Qualcuno la afferrò con forza, le conficcò le spine nella pelle fino a farla sanguinare. Un coltello apparve tra le mani di uno spettatore. Un taglio, non troppo profondo, ma sufficiente a vedere il rosso emergere dalla carne.
Il pubblico si trasformò. Il rispetto lasciò il posto alla curiosità, la curiosità alla sfida, la sfida alla violenza.
Era solo l’inizio.
Poi, quando la consapevolezza di impunità crebbe, l’atmosfera cambiò. I timidi sguardi lasciarono spazio a gesti selvaggi. Il corpo che un attimo prima era il loro oggetto da osservare, divenne improvvisamente un gioco da macellaio. La violenza sfociò in sadismo puro: il sangue cominciò a scorrere, ma non bastò. Poi arrivò la poesia. Rosa tra le mani, spine nella carne. Il sangue affiorò. Qualcuno lo leccò. Succhiarono il sangue dalle ferite. Uno tirò fuori un paio di forbici. Giù un pezzo di vestito. Una risata. Un altro continuò. Giù tutto. Nuda. Esibita. Spinta. Strattonata. Trascinata per la stanza come un sacco di carne. Il pavimento le incise la pelle, lasciandole addosso tagli, lividi, graffi.
Altri, ignobili, la legarono e abusarono di lei, sfogando su quel corpo senza vita i propri impulsi repressi.
Il rispetto si squagliò. “Inizialmente erano pacifici e timidi”, avrebbe detto Abramović. “Ma rapidamente è iniziata un’escalation di violenza.”
E poi le mani. Troppe. Ovunque. La legarono. La palparono. Uomini che non avrebbero mai osato, quella sera lo fecero.
Ma non era abbastanza. Non ancora.
Qualcuno prese la pistola. La caricò. CLICK. La mise nelle sue mani. Le spinse la canna alla gola.
Fu il gallerista a mandare tutto a puttane. Si fiondò, strappò via l’arma e la scaraventò fuori dalla finestra.
Quando finalmente la performance finì, Marina si alzò, lentamente. Il suo corpo segnato, devastato, si fece strada tra il pubblico che l’aveva torturata. Ma non c’era più coraggio tra quella gente. Nessuno osò guardarla negli occhi. La donna che avevano abbattuto, ridotta a carne, ora camminava verso di loro come un fantasma, e loro fuggirono, spaventati. La sua umanità, il ritorno dalla morte, li terrorizzò. Quella carne che avevano trattato come oggetto, ora era tornata a essere carne viva, e la paura divenne la loro unica reazione. Fu come una scarica elettrica per loro.
Marina, che in quella performance aveva messo a nudo la brutalità dell’animo umano, si trovò a fare i conti con la vergogna di un pubblico che aveva pensato di poter distruggere senza essere punito. Come disse lei stessa: “Mi sono sentita davvero violata, ma ho visto la verità: se ti affidi al pubblico, loro possono ucciderti. E quando ti alzi, ti senti fuori controllo. Ma è stata la performance più pesante che abbia mai fatto.”
Nel 1974, Marina Abramović non fece solo arte, ma un vero e proprio esperimento sociologico. Mise a nudo la verità che nessuno voleva vedere: l’uomo è una macchina da violenza, pronto a sferrare colpi brutali su chiunque si trovi in una posizione di debolezza. Non si trattava solo di una performance. Non era solo un atto artistico, era una lotta tra la vita e la morte, tra la carne e la violenza che ci portiamo dentro. Con la sua pelle come unica barriera, Abramović si spinse oltre, rischiando la vita per farci vedere la nostra crudeltà nascosta. L’istinto umano è puro sadismo, e quando c’è la possibilità di fare danno senza pagare il prezzo, la tentazione diventa troppo forte.
L’artista, nella sua abissale vulnerabilità, ha mostrato la verità che ci terrorizza: chiunque può diventare il carnefice, se ha la libertà di farlo. L’immunità diventa la chiave, e in quel buco nero di libertà senza freni, il pubblico ha trasformato la sua carne in un palcoscenico per la prevaricazione. Ma c’era di più. Non era solo la violenza a sgorgare dalle loro mani, ma la PAURA. La vergogna di essere esposti, di vedere i danni che avevano causato, di dover affrontare il mostro che avevano creato. Quando Abramović si alzò, dopo quelle sei ore di sofferenza, i suoi aguzzini non riuscirono nemmeno a guardarla negli occhi. La loro vigliaccheria esplose come un colpo di scena. Erano fuggiti via, terrorizzati, incapaci di riconoscere la loro stessa bestialità.
L’uomo si sente libero di ridurre l’altro a un oggetto senza vita, senza emozioni, ma quando la vittima riprende il suo volto, si risveglia dalla morte, l’umanità di chi lo aveva ferito scompare in un colpo.
La performance fu un urlo di verità nel buio. Un grido che ancora risuona: l’uomo è un mostro nascosto in un corpo che non sa come trattare l’altro. Ma la realtà è che non si può più fare finta di nulla. Abramović ha fatto il suo lavoro: ci ha mostrato il buio che ci portiamo dentro.
Francesca Mezzadri