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RICHARD FORD INEDITO. DA PHILIP ROTH A MARTIN AMIS

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Richard Ford è uno dei più importanti scrittori americani viventi, due volte Premio Pulitzer. È un maestro della short story, leggere per credere il suo Rock Springs, pubblicato in Italia da Feltrinelli (come tutti i suoi libri). Ma è anche uno straordinario autore di romanzi, su tutti Lo stato delle cose e Canada, che rivelano tutta la sua poetica. Ford parla di cose semplici e allo stesso tempo immense: la vita, la morte, la vecchiaia, i rapporti umani. Per la limpidezza dello stile e la complessità degli argomenti che tratta si può avvicinarlo a Philip Roth e al suo Everyman. In questo inedito, concesso a Satisfiction, Ford riflette proprio sul paragone con Philip Roth. Risponde alla domanda se Frank Bascombe, il protagonista dei suoi tre grandi romanzi, sia o no un “everyman”. Ed emergono tutti gli aspetti che Ford ha in comune con Roth. Entrambi hanno creato personaggi che ritroviamo in libri diversi, personaggi che hanno una vita autonoma e allo stesso tempo rubano ai propri creatori tanti tratti distintivi del carattere (così è per Roth e il suo Zuckerman).

Gian Paolo Serino

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Richard Ford

Nel corso di questi ultimi vent’anni, lettori impegnati mi hanno chiesto in varie occasioni se Frank Bascombe, il narratore entusiasta, talvolta pedante dei miei tre romanzi The SportswriterIndependence Day e The Lay of the Land, doveva essere inteso come il prototipo dell’americano qualunque. Immagino che i lettori vogliano sapere se Frank sia quantomeno un simbolo. Collocato nel caotico ultimo quarto di secolo, assediato da incertezze e gratificazioni, supportato dall’ambiente e dall’etica del suo New Jersey suburbano, i timori, le attitudini, gli impegni e le ricreazioni di Frank possono simboleggiare i nostri stati d’animo? Naturalmente sono lusingato da tale domanda, poiché significa che colui che pone la domanda ha quantomeno letto uno di questi libri e ha cercato di trarne giovamento. E io posso certamente immaginare che un alfiere del millennio possa meritarlo; una specie di simbolo da scrivania universale, pensoso del nostro misconosciuto “io”, non così enfatizzato da causare scoraggiamento, ma comunque abbastanza identificabile da renderci più visibili a noi stessi e forse ricertificarci come personalità persuasive nei nostri drammi quotidiani. Ma la verità è che io non ho mai pensato di proporre Frank Bascombe come prototipo di “uomo qualunque”. E ancor meno penso come portare avanti un’incarnazione letteraria così generalizzabile, sono anche sicuro che il portare avanti il tutto non sarebbe molto divertente. E io pretendo di divertirmi facendo quello che faccio. Da quasi quarant’anni autore di storie di varia lunghezza e sviluppo e, contemporaneamente, ideatore di una grandissima galleria di personaggi, ho sempre cercato di conformarmi al famoso principio di E. M. Forster che, in Aspects of the Novel sostiene che i personaggi letterari dovrebbero possedere “l’imprevedibilità della vita”. Secondo me, questo significa che i personaggi dei racconti (quelli che leggiamo e quelli che scriviamo) dovrebbero essere tanto variegati e ricchi di dettagli e imprevedibili e non generici come la gente che realmente incontriamo ogni giorno. Questa imprevedibilità avrebbe l’effetto di attirare la nostra curiosità in modo da considerare in modo più attento e penetrante i personaggi, visto che sono di solito gli aspetti principali, formali, che i giornali diffondono. Questi dettagli vivaci e sorprendenti, espressi con un linguaggio calzante, saranno la loro fonte di gradimento creativo. E tutto il processo creativo confluirà nella nostra capacità di essere più attratti dai caratteri, come da quelli della gente reale che incontriamo oltre la copertina del libro. Secondo me, questa è la ragione per cui quasi tutti i racconti – anche i più neri ‒ sono in fondo ottimisti circa la natura: perché essi confermano che la complessità della vita umana è un argomento interessante, ed essi ritengono che il giorno in cui verranno letti, le loro virtù saranno apprezzate, i loro insegnamenti applicati. (Aggiungerò, come contraltare a Forster, che ho anche tenuto presente il suggerimento specifico per gli scrittori, di Robert Frost: quando scriviamo viviamo un residuo della nostra fanciullezza, ed è per questo che lo facciamo un po’ irresponsabilmente.) Né uno né l’altro di questi suggerimenti sottintendono che gli esseri umani sono semplicemente dei pasticci e che il fatto di scrivere su di loro è più o meno come un gioco d’azzardo un po’ folle. Forster e Frost hanno affrontato vita e attività letteraria nel modo più serio. Ma le due norme suggeriscono, almeno per quanto mi riguarda, che scrivere in modo creativo consente l’approccio al dettaglio incandescente e alla indeterminatezza della vita come argomento – rappresentandola così come è – possa essere davvero piacevole e dare risultati interessanti. È su questo principio che ho fondato la convinzione che presentare e leggere sociologicamente, demograficamente, perfino anatomicamente personificazioni corrette di una classe più ampia di esseri umani – che è come io penso debba essere lo scrivere di un uomo qualunque – è un’ambizione letteraria che risulta insufficiente per le più eccelse possibilità sia di vita che di arte. Robert Hughes, critico d’arte, scrisse una volta che Cézanne, anziché possedere una teoria circa il dipingere, si avvaleva della sensibilità, «l’esperienza – scrisse Hughes – di fronteggiare il mondo, effimera, e tuttavia dolorosamente presente, autorevole nella sua attualità e costantemente, inesorabilmente nuova». Ritengo che scrivere storie sia presso a poco la stessa cosa. Considerando le mie abitudini di scrittore, cerco di minimizzare il ruolo del dolore, dell’inesorabilità e dell’arroganza nel mondo, anche se tutte queste situazioni possono coesistere. Ma non minimizzo il ruolo della pura sensazione.

La mia versione di scrittore circa la sensazione di fronteggiare il mondo, è di tenere il naso schiacciato su un mondo palpabile, mutevole, visibile, udibile, annusabile, e per la maggior parte caotico, inondato com’è da dettagli delicati, inafferrabili, affascinanti. E dove Cézanne avrebbe dipinto con il suo mezzo preferito, io dispongo del linguaggio che posso trovare o inventare in modo da mediare e immaginare il mondo per il mio lettore e (per citare Hughes in altro contesto) in armonia con “la concretezza” esperienziale. Naturalmente potete obiettare che sto agendo secondo una certa teoria. Cézanne fece così. La sua “teoria” era che avendo già visto effetti stupendi ottenuti in altri dipinti, e ritenendo che esistono realtà come le persone che si muovono e guardano da una parte e dall’altra e che, interessandoci a quanto essi fanno, così che rappresentare la gente in un dipinto è un modo di immaginare come il mondo possa contare oltre le nostre aspettative e anche essere bello. È una teoria abbastanza libera. Ma è più o meno la mia teoria per scrivere storie. E non ha niente a che vedere – per quanto posso capire – con la descrizione di personaggi generici, oppressi, che diventano “uomini qualunque”. Secondo me, e rispettando Frost, questi tre romanzi di Frank Bascombe, insieme a tutto il resto da me scritto, sono in gran misura nati dal caso. Punto primo, ho deciso casualmente di scrivere un libro. Poi ho collezionato dal mondo un sacco di cose apparentemente a caso o apparentemente significative, cose che volevo inserire nel mio libro in divenire – fatti, ricordi, frammenti di notizie, di luoghi, di toponimi, idee – tutto tradotto in linguaggio (talvolta soltanto parole che mi piacevano e volevo mettere in gioco). Poi mi sono dedicato a organizzare quelle espressioni in libertà in forma scorrevole e sufficientemente chiara da indurre un lettore a mettere temporaneamente da parte la diffidenza e a supporre un sotteso mondo stimolante e abitato da gente interessante. E facevo questo con la certezza che, se anche stavo lavorando direttamente dalla vita e stavo cercando di affidare alla pagina perfetti facsimile di individui, la verità è che nel momento in cui la penna tocca la carta, l’aderenza al fatto reale – o all’intenzione originale o alla stessa sensazione – vola via dalla finestra, sempre. Ciò avviene perché il linguaggio è una variabile indipendente dalla sensazione e tende a cercare le sue corrispondenze nella fantasia, nel contesto, nell’ora, nello stato d’animo dell’autore, talvolta forse anche nell’intenzione primaria originale, ma molto spesso no. Una volta Martin Amis scrisse che «la letteratura è uso disinteressato di parole. Non bisogna precorrere il risultato». Si può esprimere lo stesso concetto così: la Bic blu scorre sulla pagina e ne nascono sempre cose sorprendenti. Da un itinerario così poetico suppongo che si possa creare un “uomo qualunque”. Ma anche se uno fosse veramente abile dovrebbe anche essere molto fortunato. Ovviamente il mio auspicio è che i lettori abbiano con i miei libri il rapporto che Walter Benjamin pensava che i lettori dovessero avere con i romanzi: usarli. E un ulteriore esempio di questo uso potrebbe essere il credere che un personaggio è simile o dissimile dal lettore o dalla lettrice in modo che il destino o il comportamento guidi quel lettore al rinnovamento della sua vita emozionale o sensuale e alla scoperta di una nuova consapevolezza. In un certo senso è lo spettatore che fotografa. E forse alcuni spettatori che osservano Frank Bascombe lo usano semplicemente come un “uomo qualunque”. Ma molto più di quanto io voglia atomizzare i miei personaggi in applicazioni generali o anche personali, desidero innanzi tutto che trasmettano messaggi verbali o intellettuali, in modo da non essere “uomo qualunque” ma manifestarsi specificatamente come quest’uomo, questa donna, questo figlio, questa figlia, conservando integra tutta la sua imprevedibilità.

E creo personaggi con questo scopo perché penso che tutti siamo stati fatti e diventiamo interessanti, drammatici e autentici proprio con questo stesso metodo, cioè, e ribadisco il concetto, molto casualmente. Mai ho pensato a quei tre romanzi come a una trilogia, ma soltanto allo sviluppo di ogni singolo libro, assaporando con piacere e stupore il risultato. Ho sempre pensato che i romanzi che ho scritto fossero eventi completamente indipendenti e autonomi, un libro per essere compreso non ha bisogno di un altro libro. E ciò si è attuato anche con questi tre libri, anche se mi sono impegnato, scrivendo il secondo libro, a creare dei collegamenti e a indurre la sensazione di una sequenza temporale, di uno sviluppo (cioè una crescita) del protagonista, con una serie di personaggi secondari, ricorrenti ambienti paesaggistici, fatti storici e altro. Ho scritto The Sportwriter in un momento di crisi prolungata negli anni ottanta, buona parte del romanzo fu scritta mentre vivevo nel New Jersey, nel Vermont e nel Montana, nel momento in cui la mia vocazione di scrittore stava rischiando di smaterializzarsi davanti ai miei occhi, letteralmente costringendomi a compiere uno sforzo di cui non mi sarei mai supposto capace. Independence Day, iniziato nel 1992, in una casa presa in affitto a Jamestown, Rhode Island, è stato pensato come un romanzo non correlato a qualsiasi altro mio scritto. Doveva trattarsi della storia di un padre divorziato, di buone intenzioni, che si assume il compito di accompagnare il giovane figlio “difficile” e asociale alla Baseball Hall of Fame a Cooperstown a New York, e facendo questo migliora il rapporto affettivo con il figlio. Tutto sembrava procedere bene secondo i piani stabiliti per la durata di un anno. Ma nel frattempo cominciai ad accorgermi che tutta la programmazione paterna circa la vita e gli avvenimenti, nei miei appunti, concordavano con quelli di Frank Bascombe, il protagonista di The Sportwriter. Mi sforzai tenacemente di allontanare qualsiasi pensiero di un libro collegato. Temevo di riscrivere inevitabilmente quel primo romanzo, temevo di aver più ambizione che capacità o intelligenza, temevo un triste fallimento. E infine quei timori cedettero davanti all’ammissione che avere in dono una “voce” e con essa un personaggio già credibile che può trasferire la complessità del mondo in modi intelligenti, veritieri, perfino allegri era un dono troppo grande degli dei dello scrivere per essere rifiutato. E così Independence Day, dopo alcuni previ adattamenti del mio piano originale, prese corpo. The Lay of the Land, ultimo e più lungo di questi romanzi rappresenta più di tutti l’accettazione diretta e meno timorosa dell’avvio dei due libri precedenti, e una ammissione di essermi ritirato in un angolo e di poter accettare sia l’ambizione di scrivere un terzo libro in successione agli altri oppure di ammettere la codardia di rifiutare la sfida. E in questo modo nei quattro anni seguenti – dal 2002 al 2006 – questi tre romanzi su Bascombe furono completati. Se sembra che la paura abbia giocato un ruolo preponderante nella genesi di questi tre libri, è dovuto al fatto che la paura gioca un ruolo preponderante in qualsiasi lavoro che aspiri al nobile rango letterario. Paura di ciò che non si conosce. Paura dell’insuccesso, pure. Paura di rifiutare di onorare la sfida delle proprie aspirazioni giovanili. Paura, ovviamente, potrebbe essere un termine sbagliato, o forse sconveniente. Un altro scrittore potrebbe descrivere diversamente la stessa esperienza, per esempio come l’eccitazione del momento creativo prolungato. Ho già insistito, comunque, sul ruolo del caso e della pigrizia e della fortunata coincidenza. Così sembra che tutti i tipi di impulsi umani meno nobili abbiano contribuito alla stesura dei tre romanzi e che Thoreau abbia avuto ragione quando ha detto che uno scrittore è un uomo che, non avendo niente da fare, s’inventa qualcosa da fare. Certamente una delle sublimi attrattive della letteratura è quel settore del miracolo mozzafiato dello scrivere è la sua assoluta probabilità nelle mani dei suoi artefici, l’evenienza che, in fondo, avrebbe anche potuto non realizzarsi mai.

Richard Ford

 

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