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Roberta Recchia. Io che ti ho voluto così bene

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Le tragedie personali ti consumano. Fiaccano ogni fibra del tuo corpo sino ad annullare ogni parte. Le sciagure pesanti, terribili, da accettare ribaltano la vita, la svuotano e la marchiano a fuoco. Sono troppo atroci tanto che risulta difficile ammettere che siano accadute. Eppure, sai che è così, che la realtà è incontrovertibile. I rapporti spezzati dalla ferocia di azioni troppo brutte anche da nominare si ricompongono solo in un unico modo: quando ci si vuole bene. La forza sta tutta lì, una volta trovata. Sei scaraventato all’inferno senza rendertene conto e ti senti sporco pur non avendo fatto nulla di male. Ti trascini in una vita che non è più vita. Comprendi che sei fuori da tutto, tranne dagli occhi carichi di disprezzo che incrociano i tuoi. Per questo, ti isoli, ti chiudi. Puoi allontanarti dalla società, ma la famiglia anche se è stata lacerata da una tragedia devastante, resta il vuoto più profondo da gestire e l’antro in cui vorresti trovare pace e rifugio. E’ nella mancanza che scatta qualcosa, anche se ad onor del vero l’abbondanza di oggi crea una certa assenza di valori. In un modo o nell’altro si innesca quell’incomprensibile azione che è l’epilogo, non del tutto certo, di una narrazione che si allarga sulla base di aspetti tralasciati quando invece erano campanelli d’allarme.

In Io che ti ho voluto così bene di Roberta Recchia entri nei tormenti dolorosi di Luca che, a meno di quattordici anni, ha una sensibilità silenziosa che lo rende diverso dai coetanei. Abita, con i genitori e il fratello più grande, in una località di mare. Un’estate una ragazza diventa il suo sogno d’amore. Quando però lei scompare i carabinieri bussano alla porta di casa sua e la vita di Luca e dei suoi viene segnata per sempre. La madre, per proteggerlo e per sottrarlo alla vergogna e alla gogna mediatica, lo spedisce al Nord, dallo zio Umberto. A Milano, in un mondo diverso dal suo, Luca prova a ricostruirsi. Cresce e mette radici cercando di dare un senso alle parole fiducia e appartenenza.

Il romanzo, sequel di “Tutta la vita che resta” e che si legge in modo indipendente, è mal riuscito pur nella delicatezza del tema trattato. La narrazione è lenta e toglie spessore alla storia. La scrittura è buona, ma non è troppo centrata. Si sfilaccia già nell’idea di continuare un racconto che andava benissimo con il primo romanzo. La trama fa apparire il libro una forzatura in cui manca più di qualcosa.

Lucia Accoto 

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