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Rüdiger Barth e Hauke Friederichs. I becchini – L’ultimo inverno della Repubblica di Weimar

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La forma degli incubi è come un piano inclinato, una strada che apparentemente assomiglia alle altre, e invece conduce lontano, nel bosco, in un posto che è immerso nel buio. All’inizio il viandante non si accorge di nulla, se non di qualche strano rumore, che dal fondo fa eco ai suoi passi; come uno scricchiolio, un esalare di voci, venuto forse dal mondo della sua immaginazione. No, niente di cui preoccuparsi, è stato solo una suggestione… passerà in fretta. Ma poi, nella radura, a un tratto il sentiero è interrotto – non si può tornare indietro. Ed ecco che quelle strane creature, prima annunciate dalle voci, cominciano a farsi avanti, lo toccano, lo circondano, hanno voglia di giocare; e il senso del gioco è nel corpo e nell’anima – ora appartengono a loro. Si vorrebbe gridare, ma chi ascolterà quell’urlo? Non c’è nessuno nella mente di un uomo, se non i suoi demoni…

Così anche in quella Germania, quasi cent’anni fa, tutto era iniziato impercettibilmente, come nel classico intrigo parlamentare. La Repubblica di Weimar, ancora in fasce e già marcia, agonizzante, si dibatteva in una fase di stallo, incapace di darsi un governo. Una crisi economica devastante, seguita al crollo di Wall Street, continuava a falciare posti di lavoro, a distruggere negozi e aziende, gettando le famiglie nella miseria.

Per le strade, SA e comunisti si uccidevano a vicenda, oppure muovevano a tenaglia contro la Polizei o il Reichsbanner – il servizio d’ordine del Partito Socialdemocratico. La Reichswehr, bloccata dal Trattato di Versailles a un massimo di centomila effettivi, assisteva impotente al montare della violenza. Uno scenario wagneriano, di assoluta decadenza. Eppure nessuno credeva all’incubo. Certo, c’erano ansia, inquietudine, rabbia e paura, ma in fondo si trattava solo di tenere duro. Presto quell’Hitler sarebbe dovuto venire a più miti consigli. Lo NSDAP era arrivato al culmine della sua forza vitale, da gennaio avrebbe cominciato a perdere consensi. E per fortuna c’era il Presidente, Paul Von Hindenburg. Lui sapeva cosa fare.

Più che a una scacchiera, il campo politico assomigliava a quello del go. Un gioco cinese in cui l’obiettivo è circondare le pedine dell’avversario, fino a togliergli ogni spazio vitale, e quindi stritolarlo. Ognuno dei protagonisti cercava di fare lo stesso. Nessuno era abbastanza forte per vincere in campo aperto, mangiando l’avversario, dunque provava a indebolirlo, con attacchi sotterranei, volti alle basi del suo potere. Il risultato era un’estenuante serie di movimenti tattici, che in gran parte avvenivano a Berlino, dalle parti della Cancelleria.

Kurt Von Schleicher, il Cancelliere, aveva in mente un piano per la crescita dell’economia, che gli avrebbe permesso di superare la crisi, mettendo all’angolo gli estremisti. Intanto complottava con uno dei leader del nazismo, Gregor Strasser. Non era soltanto uno dei fondatori della NSDAP, oltre che uno straordinario organizzatore, ma restava fra i pochissimi capaci di opporsi a Hitler: la sua corrente “socialista” era abbastanza grande da spaccare il partito, e formare un ottimo puntello per il governo. Forse poteva diventare Vice-Cancelliere, con qualche margine di manovra. In ogni caso, se non fosse bastato, Schleicher aveva un piano B: stringere un’alleanza con le milizie del Spd e dello Stahlhelm, e poi dichiarare fuorilegge tutte le altre, a cominciare dalle SA. In quel modo nazisti e comunisti sarebbero stati schiacciati. Non era esclusa nemmeno una dittatura militare – ovviamente condotta da lui, e del tutto temporanea.

Kurt Schumacher, leader indiscusso dei socialdemocratici, rifiutava ogni alleanza con i comunisti: presto l’SPD avrebbe avuto la forza di governare da solo. Alfred Hugenberg – una specie di Berlusconi dell’epoca, magnate dei media, padrone di radio e giornali – tesseva contatti per il suo partito populista, che raccoglieva pochi voti, ma stando al centro poteva essere perno di mille alleanze. Stesso discorso per lo Zentrum. I comunisti seguivano gli ordini di Mosca, che imponeva di continuare con gli scioperi, la guerriglia, la strenua lotta sia dentro che fuori il parlamento. E Hitler? In quel momento era in bilico.

Per la prima volta da molti anni, il suo movimento subiva un’impasse. La crescita dei voti si era fermata, e a questo si accompagnava il malcontento di molti Gauleiter ed SA, ormai stanchi di combattere per la gloria. Volevano il potere, a qualunque costo. Ma il ricordo del putsch di Monaco, nel ’23, che era finito con una clamorosa sconfitta, frenava il futuro Fuhrer da ogni possibile assalto. Voleva arrivare alla Cancelleria per mezzo della democrazia, e solo dopo strangolarla. Ma il tempo congiurava contro di lui. Strasser era pronto a tradirlo, e con lui molti uomini. Il loro giuramento di fedeltà non contava più niente. L’unico di cui poteva fidarsi era un demone dal piede caprino, Joseph Goebbels.

Quel lento soffocare, quel vano e continuo sprofondare in basso, per inerzia, era circondato da uno strano ronzio – come un rumore di fondo, che si udiva un po’ dappertutto, nelle case e nelle osterie, nelle fabbriche e nei teatri. Di solito era il prodotto di qualche conversazione, origliata nelle sacre stanze da un giornalista, e poi riportata con fantasia sulle pagine dei quotidiani, in una girandola infinita di commenti, opinioni, ipotesi e complotti (ricorda qualcosa?). Da qui la boutade entrava nelle teste degli uomini, e generava altri discorsi, che proseguivano all’infinito un po’ ovunque, senza portare a niente.

Von Papen si è incontrato con Hitler, al Kaiserhof è arrivato anche Goering, Meissner ha voluto appartarsi con Schleicher, c’è stato un abboccamento con quelli dello Zentrum… la Germania non era che un unico, straboccante corridoio di voci, che echeggiavano fra le pareti, e producevano un senso di stordimento, come per i postumi di una sbornia. Ed è questo che si legge ne I becchini. Un libro di frammenti, che assomiglia a una tela strappata, un puzzle spezzato e ricomposto più volte, dove ogni vicenda è riportata così, in presa diretta, con un presente efficacissimo e scarno, la realtà senza belletti.

Ogni paragrafo è dedicato a una scheggia di quel mondo, che all’improvviso rivive ai nostri occhi attraverso le vicende di uomini e donne – non solo politici, industriali, power broker, ma anche operai, soldati, prostitute, avventurieri e sindacalisti, pazzi e artisti, persi in un vortice che li spingeva giù, verso il fondo, al centro di un enorme buco nero, grande come una stella… Hitler era là, li stava aspettando.

Di libri ormai è pieno il mondo – nessuno li legge, ma sono sempre là, su uno scaffale, pronti a frusciarci fra le dita. Ce ne sono a migliaia – forse troppi – per lo più insipidi, fatti in serie come pezzi di alluminio. Qualcuno ancora insegue il mito della scale-up, illudendosi che qui si possa giocare al piccolo Henry Ford. Ma non funziona – non nelle vendite almeno. E per questo ci sono centinaia, migliaia di libri tutti uguali, che inseguono una manciata di copie puntando sul “sicuro”, su ciò che è già masticato e assorbito dal pubblico. In questo senso il nazismo è perfetto.

Sono reduce da un viaggio fra Polonia e Germania, dove ho appreso in fretta che il fenomeno-Hitler, con i suoi orrori, porta con sé anche una sorta di macabra fascinazione, appena celata da un disgusto di maniera. Camminare a Birkenau, lungo i binari, mi ha fatto pensare a quanta gente si era fatta centinaia di chilometri solo per andare in un bosco, a Rastenburg, per ammirare la Tana del Lupo. Un luogo che è ormai una serie di blocchi, ammassati fra le piante, dove non c’è altro che un po’ di cemento, e pareti coperte d’edera. Qualche cartello avverte i visitatori che là il Fuhrer si riuniva con i suoi generali, qui prendeva il tè con i suoi fedelissimi… difficile immaginare qualcosa di più lontano dal nostro coloratissimo e futile Instagram-world.

Eppure era come se ci fosse un magnete, laggiù, nascosto e invisibile, ma abbastanza potente da attirare le bussole di migliaia di uomini, alla ricerca di qualcosa. Un’impressione che mi è stata confermata più tardi, a Dresda, quando entrando in una libreria ho trovato il volto di Hitler su almeno quattro copertine. Una copertura mediatica inarrivabile per chiunque, anche per un Jobs o un calciatore. Insomma, Hitler è ancora con noi. Ma vale la pena comprare, e leggere, l’ennesimo libro sul nazismo? Non si rischia di avere in mano il solito instant-book?

Conosco abbastanza l’argomento per dire che il novanta percento delle opere dedicate al nazismo sono spazzatura. Sono peggio che brutte – insipide, inutili. Potrebbero essere state scritte da chiunque, anche da un robot. Vi si trovano sempre le stesse foto – Heydrich che passeggia accanto a Himmler, un ritratto di Hitler, cadaveri ammassati in un campo – e gli stessi discorsi, ormai ripetuti allo sfinimento. Come pappagalli, ribadiscono le loro “verità” senza nemmeno pensarci, perché così è ed è sempre stato, e dunque si dà per scontato che sia stata l’inflazione ad aprire le porte al nazismo, quando in realtà, in quegli anni, la NSDAP prendeva al massimo il tre percento… solo con la Crisi del ’29 i nazisti sarebbero saliti alla ribalta.

Per fortuna ci sono delle eccezioni, e I becchini è una di queste. Un libro straordinariamente veloce, moderno, efficace, che però non ha una goccia di sciatteria. Nelle sue pagine è contenuto il racconto di come la Germania, un paese straordinario, all’avanguardia sia nelle scienza che nelle arti, avrebbe imboccato un lungo sentiero della notte, fino alla sua più completa distruzione. E seguendolo si capisce che i nazisti lo avevano battuto con la forza, la crudeltà, la follia, ma soprattutto con la scaltrezza del suo capo. Hitler, a differenza di altri, era perfettamente a suo agio in quel clima di corruzione, di lento e soffocante declino.

A dispetto del suo mito, conosceva perfettamente quell’edificio – la scricchiolante Repubblica di Weimar – ed era a suo agio nel percorrerlo, fino ai suoi meandri più oscuri. Per questo avrebbe distrutto quelli che cercavano di fregarlo, a cominciare da Papen. A differenza loro, sapeva realmente cos’era la democrazia, e non la sottovalutava. Aveva già saggiato la sua forza, durante il putsch. Così gli era chiaro che non c’era modo migliore per vincerla che contaminarla, e poi strangolarla dall’interno… una storia che purtroppo è destinata a ripetersi.

Perciò leggere queste pagine ha un effetto che è doppiamente straniante – da un lato un mondo normale, civile, che pian piano si tramuta in un Inferno, dall’altro, l’idea di avere per le mani uno specchio, pronto a riflettere la nostra stessa realtà, quella di oggi. Che i becchini, in tutt’altre forme, siano ancora fra noi? Leggere è il modo migliore per saperlo – anche se forse non serve a niente.

Matteo Farneti

Recensione al libro I becchini. L’ultimo inverno della Repubblica di Weimar di Rüdiger Barth e Hauke Friederichs, Bompiani, traduzione di Francesco Peri, 2019, pagg. 536, euro 24.

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