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Salvatore Massimo Fazio. Il tornello dei dileggi

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«A Catania sentirsi straniera nella propria città. Ma Adriana è fuori posto ovunque, dice di sé allo specchio, in un mattino di terrore e Scirocco. Esplodono i cassetti perfettamente ordinati nel computo dei quaranta e più anni degli uomini, a volte appagati a volte meno, tutti in un fiat, passati da alba a flagello».

Un incipit destabilizzante ne Il tornello dei dileggi di Salvatore Massimo Fazio per Arkadia Editore. Piacevolmente destabilizzante è una dicitura adeguata a una storia da seguire attentamente nella quale il linguaggio utilizzato richiede altrettanta attenzione. Un linguaggio particolare, insomma, che si crea dall’unione dei linguaggi che l’autore ha utilizzato per le sue varie attività – saggista, filosofo, giornalista – e che confluiscono in un linguaggio narrativo decisamente originale.

Anche dal punto di vista tematico si ravvisa una profonda dicotomia tra la delusione e l’usura della cruda realtà imperante e il linguaggio ironico e pungente reso dissacrante dello stile.

Una piccola rivoluzione linguistica che ci permette di poter quasi definire il volume come sperimentale, a metà strada tra narrativa filosofica e sceneggiatura teatrale.

Le vicende dei protagonisti – Aristide (il diavolo), Franco (il musico), Paolo (il maestro) e Andrea (il saggio) – si intrecciano fino a dare un quadro d’insieme del modo in cui l’essere umano si inserisce nella società del proprio tempo.

La trama pare essere quella di un film. Sembra di vedere i luoghi e le persone animarsi, percorrere lo sguardo del lettore che, sgomento e deliziato, può godere di una dinamicità complessa, può gustare la personificazione di quella società liquida di cui Zygmunt Bauman ha tanto parlato:

«Come belve impazzite che però vogliono nascondere il dolore causato dalla fine di un dominio, gli uomini che perdono il controllo sul proprio simile, sottoposto alle loro fittizie verità e reali manipolazioni, perdono, appunto e nuovamente, il controllo e, con il dileggiare più tragico e le risate elaborate solo dal piccolo orticello delle proprie figure inutili che stanno intorno come api nel punto centrale di un fiore che non producono nulla, si scagliano ubriachi, alla stregua di allegorici falsi profeti. Inetti, innanzi alle loro compagne che rimangono inermi e atterrite al solo vedere cosa sta accadendo. E loro, ominuccoli senza ritegno, avanzano nello spergiuro».

Dal particolare si confluisce in un universale di grande spessore concettuale. Qualcosa che muove dalle singole situazioni con le loro infinite variabili per tuffarsi nell’umanità intera che, proprio nella sua interezza, rende indistinguibili le diversità e si orienta invece verso le comunanze, verso l’immensità dei dubbi certi e delle incerte risposte, verso la meta del senso della vita, verso la consapevolezza della sua brevità e verso l’impossibilità della sua eternità che delegittima i discorsi esistenziali:

«Siamo nella stessa barca. Vogliamo andare in quell’isola perché i quaranta li abbiamo raggiunti, ma in realtà c’entrano poco i quaranta, non vogliamo più svanire. Vogliamo, vogliamo, però non facciamo nulla se non tornare sotto altre forme sui vari argomenti cervellotici. Ma se è breve e una la vita, ne vale la pena? Questo me lo insegni tu, io pensavo che tutto poteva andare senza forzarsi un attimo in attesa del grande trapasso, però sembra che vuoi sempre navigare senza raggiungere l’isola».

Il finale raggrupperà i fili di quelle marionette – che paiono vagare nel buio di un teatro tristemente pieno – delineando un concetto comune in profondo accordo con il resto della narrazione.

Flora Fusarelli

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