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Sandrine Collette anteprima. Madelaine prima dell’alba

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Attimi di immobile potenza: “Mi sento la marmotta che sorveglia la collina, l’aquila che plana sopra le loro teste. Cerco di riparare un errore che non capisco e sul quale non ho presa, assisto impotente a quella forza fra loro che non si libera, perché non si fa, perché sempre le cose sono così senza che possiamo fare niente per cambiarle: esistono universi incapaci di muoversi.”

Il senso del pericolo: “Per il momento ho solo una sensazione contraddittoria: non è pericoloso, ma c’è pericolo. È inoffensivo, altrimenti i cani abbaierebbero in maniera rabbiosa e allarmata. Potremmo metterci l’animo in pace, ma sarebbe pigrizia, e noi non siamo pigri. Come ho già detto, siamo vigili. Quindi lassù c’è qualcosa e io la troverò.”

Madeleine: “Osservo Madelaine con la coda dell’occhio, forse come l’ha guardata Eugène. È fiera, sanguigna, bassina… ma siamo tutti abbastanza bassi, i grandi dicono che non cresciamo perché non abbiamo abbastanza da mangiare. Il mio sguardo è pieno d’amore, con una strana percezione dietro che mormora che sì, ci piace Madelaine, è un fuoco al quale ci riscaldiamo le mani, un sole che profuma i nostri prati. Ed è pericolosa. Per sé stessa e per noi. Se avessimo ali ce le brucerebbe”.

Dal 26 marzo è in libreria Madelaine prima dell’alba di Sandrine Collette (Edizioni E/O pp. 208; € 19,00 con traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca).

Sandrine Collette con romanzi come Resta la polvere, Dopo l’onda, E sempre le foreste e Eravamo lupi, ha conquistato prestigiosi riconoscimenti, tra cui il Gran Premio RTL Lire e il Premio Renaudot des Lycéens, affermandosi come una delle voci più potenti della narrativa contemporanea.

Nel cuore di un minuscolo borgo chiamato Le Salite, il tempo sembra essersi fermato. Per le gemelle Ambre e Aelis e per la vecchia Rose, quel piccolo angolo di mondo è tutto ciò che esiste. La vita qui non è mai stata semplice: le famiglie faticano su terre che non appartengono loro, inghiottendo ingiustizie come se fossero parte dell’aria stessa. È sempre stato così. Fino a quando, un giorno, dalla foresta emerge Madelaine, una bambina affamata e selvatica.

Accolta dagli abitanti di Le Salite, Madelaine conquista tutti con la sua energia travolgente, la sua passione e il suo spirito indomito. Madelaine non si conforma. Nei suoi occhi c’è un fuoco molesto che nessuno può controllare. Un fuoco indomabile che un giorno incendierà il mondo.

Con Madelaine prima dell’alba, Sandrine Collette esplora il delicato equilibrio dell’ordine sociale e l’istinto profondo della ribellione e ci regala un’ode ai legami familiari.

Carlo Tortarolo

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Si affrettano con la lentezza quasi ipnotica dei grandi corpi sfiniti dopo una giornata di duro lavoro, che si è interrotta molto prima del previsto quando è arrivato il bambino. La terra freme sotto i loro passi pesanti.

Uomo e cavallo procedono fianco a fianco, puzzolenti entrambi di sudore secco sulla pelle rugosa. Il primo si terge la polvere che gli rende grigia la fronte, l’altro scuote la testa per scacciare le mosche. Il bambino cammina davanti, si volta per aspettarli, non dice niente, ma il suo comportamento tradisce impazienza. Vorrebbe che si sbrigassero, che l’uomo chiamato Eugène il Forte fosse rapido come il vento, vorrebbe che il potente cavallo si lanciasse e li portasse in groppa fino a destinazione, perché Aelis – o forse Ambre, non lo ricorda più – gli ha detto con voce terrea: «Corri veloce. Digli che è grave».

E il bambino ha corso fino a farsi scoppiare il petto. Sulla riva del fiume ha chiamato la traghettatrice con grida che sembravano ruggiti, ha scalpitato durante la traversata e si è rimesso a correre appena posato il piede sull’altra sponda. Ha attraversato il bosco, ha incrociato alcuni uomini curvi nei campi che con braccio stanco gli hanno indicato una direzione, ha cercato sul limitare delle foreste scure la sagoma dell’imponente cavallo dorato e si è fermato solo dopo averlo raggiunto. Lì ha riferito il messaggio urgente e Eugène si è subito affrettato a togliere le cinghie da tiro all’animale abbandonando in mezzo a una radura il tronco che stavano trasportando. Il bambino allora ha pensato che sarebbero tornati come aveva detto la padrona di casa, rapidamente, molto rapidamente, invece i due esseri che lo seguono procedono a passi pesanti, lunghe falcate intorpidite e interminabili, il peso della giornata non permette all’uomo e al cavallo di fare di meglio, è così. Dentro di sé tuttavia Eugène urla che sta arrivando, urla che lo aspettino.

Non sa perché il bambino sia venuto, il piccolo non gli ha spiegato niente, gli ha solo detto che Aelis, o forse Ambre, l’ha mandato piangendo, con un ordine imperioso, vai, svelto, la disgrazia è su di noi. E Eugène avanza verso quella disgrazia a passi lunghi e lenti cadenzati su quelli del cavallo. Il suo primo riflesso è stato di afferrare tremante la spalla del bambino. «I miei figli?». Il bambino l’ha guardato senza capire e Eugène si è ripreso, a quell’ora i figli lavorano nei campi che hanno in affitto, non sono a casa.

Sulla riva del fiume l’Anziana li sta aspettando, il bambino l’ha avvertita che sarebbe tornato presto. La traghettatrice ha piazzato l’imbarcazione nel punto in cui il cavallo può salire a bordo: Jéricho pesa ottocento chili e la chiatta oscilla quando si imbarca senza esitazioni. Per quanto l’Anziana porti Eugène da una parte all’altra del fiume mattina e sera per metà dell’anno da otto anni, lo guarda e gli dice per l’ennesima volta: fallo stare immobile. Eugène non risponde, non risponde mai, le parole dell’Anziana sono solo routine. Con una mano sull’incollatura del cavallo osserva la vecchia risalire lungo il cavo del traghetto a forza di muscoli, con la faccia e le braccia quasi blu per lo sforzo, e come ogni mattina e sera per metà dell’anno da otto anni pensa che sia una follia lasciare il traghetto nelle mani di quella donna, che la vecchia non abbia più l’età per fare quel mestiere. Su quel punto non mancano i commenti, tutti sono d’accordo nel dire che il cavo tratterrà il traghetto qualunque cosa succeda, ma lei, l’Anziana, ci lascerà la pelle a forza di tirarlo, con le vene gonfie che le disegnano sentieri tortuosi sulle tempie grigie, le grida rauche che emette a ogni metro conquistato e i palmi delle mani abrasi dalla corda. Tutti ne parlano e nessuno fa niente, le cose rimarranno così finché non ci saranno incidenti. Conviene a tutti che la vecchia si occupi del traghetto, visto che non c’è più il ponte. Eugène se lo ricorda, il ponte. È stato distrutto quando aveva dieci o dodici anni e non è stato ricostruito per volontà degli abitanti di La Foye, anche se non capisce perché. È così e basta. È così, e poi c’è il fatto di essere al sicuro dal mondo.

Ma quanto ci mette ad attraversare quel fiumiciattolo! pensa Eugène stringendo i pugni per non afferrare il cavo al posto dell’Anziana.

Allora chiude gli occhi e come al solito cerca di riposare per i pochi minuti che dura la traversata. Ha la schiena spezzata dal lavoro della giornata. Troppa fatica, ma è normale, è sempre così, tutti i giorni, la fatica è vita. Dentro di sé pensa che lui non la sente più, che l’ha fatta sua con quel corpo immenso che gli altri credono al riparo da miseria e vacillamenti. Tratti stanchi e scavati, spalle tese, mani grosse come zampe d’orso e capaci di impugnare qualunque attrezzo per svolgere qualunque lavoro, Eugène sta al centro della chiatta con le gambe un po’ larghe per non barcollare e non innervosire Jéricho fermo accanto a lui. È solo sull’imbarcazione. È sempre solo. Nessuno vuole attraversare il Basilisco. Il lungo fiume verde sotto i suoi piedi serpeggia sinuoso tra le terre come il serpentello mortale che gli dà il nome, eppure Eugène sa bene che il Basilisco non è un fiume da serpenti. Il suo colore quasi smeraldino non è dato dalle squame delle migliaia di rettili nascosti nei suoi anfratti, come sostengono quelli che giocano a farsi paura, ma dalle rocce e dalle alghe d’acqua dolce.

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