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Santoka e Dino Campana. Scrivere, camminare

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Più di un punto in comune avvicina Taneda “Santoka” Shoichi a Dino Campana. Entrambi poeti, pur nella dovuta distanza culturale. Entrambi camminatori, divoratori di strade. Entrambi alle prese con un “disagio”.

Taneda Shoichi nasce nel 1882 nelle vicinanze di Yamaguchi, figlio di un agiato proprietario dedito al libertinaggio e avviato al dissesto finanziario. Taneda inizia presto a scrivere, pubblicando le sue opere con lo pseudomimo di Santoka. Ma inizia presto a bere, e non lo salva il matrimonio con Sato Sakino, da cui ha un figlio. Il padre fugge con un’amante dopo aver dichiarato fallimento, Santoka soffre di depressione e beve sempre di più.

Una notte Santoka è ubriaco fradicio, si piazza sui binari della ferrovia e aspetta che un treno lo travolga. Il guidatore del treno che arriva lo vede e frena in tempo. Santoka viene portato al tempio zen Hoonji. Un anno dopo è ordinato monaco zen, e va a vivere in solitudine a Kumamoto, in un tempio abbandonato. Ha iniziato a scrivere haiku (“Tutto ciò che non è realmente vissuto dal cuore, non è haiku”). È nel 1926 che intraprende il suo primo viaggio con quello che possiede: l’abito di monaco, la ciotola e il cappello di bambù. Dopo quattro anni torna a Kumamoto dalla moglie, fonda una rivista di poesia. Nel 1932 va a vivere a Ogori, poi riprende i suoi viaggi, fino al 1938.

Di lui Ogiwara Seisensui scrive: “Santoka cammina senza scopo, è come le nuvole e i fiumi. Deve muoversi, cambiar luogo. Per lui camminare è vita”. Santoka stesso scrive: “Quando si viaggia si arriva a comprendere gli esseri umani, la natura e la poesia”.

In questo periodo pubblica le raccolte Stupa d’erbe e alberi, L’uomo con la ciotola da mendico, Paesaggi d’erbe selvatiche e Foglie di kaki, nei due anni successivi Solitudine e Corvi.

Muore nel 1940. Fino ad allora aveva percorso a piedi 28 mila miglia.

Dino Campana nasce nel 1885, tre anni dopo Santoka, a Marradi, vicino Firenze. Intorno ai cinque anni incominciano a manifestarsi i primi disturbi che gli varranno nel suo paese l’appellativo di mat. Ma ciò che lo contraddistingue presto è la sua predisposizione alle fughe e ai lunghi vagabondaggi. Durante l’ultimo anno di liceo parte a piedi e viene arrestato a Parma. Nel 1906 la sua carriera escapistica prosegue con una fuga e un viaggio fino a Genova, e con una conseguente visita specialistica per essere internato in un manicomio al compimento del ventunesimo anno d’età. Fugge ancora, viene fermato in Francia, finisce nel manicomio di Imola, dove rimane per un mese. Poi parte per Buenos Aires.

Intanto Campana scrive. Fugge, cammina e scrive. Torna in manicomio, a Firenze. Poi compie un viaggio a piedi da Marradi al santuario della Verna, il luogo delle stimmate di San Francesco, e scrive una delle parti che comporrà i sui Canti Orfici: il manoscritto dell’opera è inizialmente smarrito dalla “premiata ditta Papini & Soffici”, l’anima editoriale della rivista Lacerba. Campana è costretto disperatamente a riscrivere tutto.

Del suo incontro con il mondo intellettuale italiano scrive:

“Vo alla latrina e vomito (verità) / Letteratura nazionale / Industria del cadavere / Si salvi chi può”

Intanto parti delle sue opere incominciano a vedere la luce, pubblicate qua e là. Nel 1916 incontra Sibilla Aleramo, già amante di Cardarelli ed Emilio Cecchi. Nel 1918 è rinchiuso nel manicomio di Castel Pulci, e vi rimane quattordici anni, durante i quali lo psichiatra Pariani lo visita regolarmente diventando anche il suo biografo. Muore nel 1923.

Il viaggio settembrino per la Verna porta Campana per strade solitarie e immerse nella Natura. Passa per Campigno, per la foresta del Falterona, Stia e poi il passo della Verna. E ritorno, per il Monte Filetto, ancora Campigno, fino a Marradi. Un movimento in cui il camminare prende l’aspetto del pellegrinaggio.

Se, come ricorda Le Breton, “camminare significa mettersi a nudo, scoprirsi in un faccia a faccia con il mondo (…) nell’affidare i propri passi al magnetismo della strada (…) e conduce a percorrere le sinuosità del mondo e del proprio essere in uno stato di ricettività, di alleanza, Campana è nel paesaggio, è nella Natura in ogni passo messo avanti verso la meta. Solo, è tutt’uno con ciò che lo circonda, in basso come in alto:

Come incantate erano sorte per me le stelle nel cielo sullo sfondo lontano dei dolci avvallamenti dove sfumava la valle barbarica, donde veniva il torrente inquieto e cupo di profondità. Io sentivo le stelle sorgere e collocarsi luminose su quel mistero.

In una notte stellata che riporta la memoria a quella dipinta nel 1888 da Van Gogh ad Arles Campana è nelle luci della valle accese e in quelle sospese sulla volta celeste, poi si rende conto: “Ero solo”.

Più avanti, nei pressi de la Verna

Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte.

Sulla strada del ritorno

La tellurica melodia della Falterona. Le onde telluriche.

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