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Sara Maria Serafini. Giovani e belli

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Quando sei giovane l’unica cosa che possono strapparti di dosso è la gioventù. Un vestito sottile, una membrana, impalpabile, fragilissima. Qualcosa che neppure si vede eppure è sempre lì, con il suo spartiacque invisibile che separa il confine tra il prima e tutto ciò che sarà (forse) poi. Quando sei giovane sta tutto lì, in quella cosa che prima c’era e, adesso, non c’è più.

Di Sara Maria Serafini avevo già letto e apprezzato le precedenti opere — L’amore che devi, Quando una donna (entrambe edite da Morellini) e la sua novella breve ma fulminante Rigenerazione K035 (Divergenze, 2022), ora, abbandonati gli excursus nei futuri distopici, con questa nuova creatura l’autrice torna a una dimensione più carnale e terrena, ma non meno inquieta.

In Giovani e belli, Sara ci conduce in una Sardegna che non è mare né mirto, nemmeno luce limpida sulle rocce: è una terra interiore, scavata nell’ombra, odora di cemento asfittico, di camerate disadorne e di un’infanzia trattenuta da incubi ricorrenti che nella mente di un adolescente non dovrebbero mai trovare dimora.

«Eravamo ancora bambini, ma la rabbia ci aveva già reso adulti. L’adolescenza non è arrivata mai: è rimasta ferma lì, in quella stanza, a guardare il soffitto.»

Diana e Filippo “Lippo”, vivono ai margini della città: lavorano poco, amano male, sopravvivono dentro un B&B che odora di muffa e zucchero. Le giornate si trascinano alla stregua di viscidi datori di lavoro, la conta delle siringhe nel parchetto e una musica costante che proviene dal Killing, il locale sotto il loro alloggio, che gli impedisce di dormire e poi c’è quella maledetta visione che ritorna, ogni notte. Emma vista dall’alto, mentre cade sopra un letto di camomille. Braccia e gambe protese verso l’alto e quell’accenno di un sorriso che somiglia a una promessa mancata.

«Emma era la sorella e la mamma. Veniva prima di tutto. Anche prima della paura.»

Emma, la sorella scomparsa, l’amica-madre che li aveva cresciuti nella casa famiglia Littarru.
Emma, la terza del trio, era la luce perduta intorno a cui tutto ruotava, la “veggente”, quella che trasformava la fame in gioco, la paura in fiaba, la solitudine in rito. Quando muore, Diana e Lippo restano come due animali smarriti: troppo vivi per sparire, troppo feriti per vivere davvero. Da allora si spogliano e si stringono vicini per dormire, confondendo amore e bisogno, corpo e casa: tutto ora è contaminato.

«All’epoca non realizzavamo davvero che quella rabbia che ci assaliva, lenta, quando qualcuno andava via al posto nostro, era pericolosa. Avremmo potuto uccidere, oggi lo so.»

La Littarru, la casa dei bambini senza casa, è il cuore oscuro della storia. Tra le sue mura si agitano suore, regole, abbandoni e qualcosa di ancor più nero. Serafini non descrive la violenza, la fa vibrare: nelle pause, nei silenzi, nei tremori delle mani, nei respiri trattenuti di chi sopravvive. Tutto il romanzo è un lungo doposisma, una cronaca delle macerie: quando la terra si è già spaccata e i corpi cercano invano di restare in equilibrio.
Ma
Giovani e belli non è solo un racconto di dolore. È anche, e soprattutto, una storia d’amore. Un amore deformato, profanato, eppure dolce, unica lingua possibile per capirsi in un mondo di ciechi. Diana e Lippo si appartengono nel modo in cui due naufraghi si tengono a galla: per necessità, non per scelta. Si parlano attraverso gesti minimi: un bicchiere di caffè, una carezza che lenisce il tremore, una frase lasciata a metà. Lei lo guida, lui la ancora. Si scambiano la salvezza come un testimone invisibile. A interrompere questo equilibrio precario arriva Mimmo, il ragazzo gentile, la promessa di un futuro diverso. In lui Diana intravede la possibilità di essere una donna normale, di ridere, di uscire a cena, di parlare di compleanni, gli stessi compleanni che, per gli orfani della Littarru, non sono mai esistiti. Ma basta un gesto, una parola, e il passato torna a premere dietro le palpebre.

«Eravamo bambini appesi alle finestre. Un giorno sì e uno no arrivavano da fuori le coppie sposate senza figli, a scrutarci, come si fa con i cani nei recinti.»

Un po’ romanzo di formazione, un po’ avventura on the road, Giovani e belli si muove come una marea lenta, in cui il presente e il passato si confondono. Il lettore viene trascinato dentro una memoria che non sa stare ferma, che si rimescola e si riapre come una ferita non suturata, alternandosi nei punti di vista di entrambi i protagonisti. Diana non è Lippo e viceversa, la possibilità di assistere alla vicenda da due prospettive diverse dona alla storia una materia e una profondità ben lontana dalle canoniche storielle adolescenziali.

«Per noi il sesso come lo intendono gli altri non esiste. Esiste quello che abbiamo iniziato a fare molti anni fa, e che continuiamo a fare ancora: calmarci.»

Diana e Lippo sono lontani anni luce dagli sbandati di Kerouac o dai libertini di Tondelli e nel mondo degli smartphone la vendetta va stanata a colpi di messaggi in direct con i volti degli avatar oscurati. Nel romanzo, la giustizia non è mai riparazione, «la giustizia non è per noi. Noi abbiamo solo la memoria», è un sogno tentatore che sussurra costantemente corrompendo ogni momento. Eppure c’è una forma di bellezza, una scintilla che resiste. È la stessa che brilla nel titolo: “Giovani e belli”. Un titolo ironico, crudele, che allude alla promessa mai mantenuta dell’infanzia, ma anche alla vitalità che sopravvive nonostante ogni Mala sorti.

La scrittura di Serafini è musicale e tagliente, una lingua tesa, viva, che alterna sprazzi di crudeltà e carezze con disinvoltura e consapevolezza, mescolando dialetto sardo, lirismo e realismo con la naturalezza di chi conosce la fame dell’adolescenza. Nei capitoli, ritmati da una cadenza ben precisa, il passato si sostituisce al presente sbiadendo i contorni di un’ambrata melanconia. «L’infanzia è l’unico luogo che non riusciamo ad abbandonare» e ogni pagina sembra scritta sul corpo: un corpo che ricorda, che parla, che non smette di annusare, addentare, assaggiare, trattenere. Il dolore non è mai gratuito ma una materia viva, narrata dalle coordinate di un itinerario geografico e metaforico, dove ogni architettura diventa ospite e spettatore senziente.

«L’Aspromonte ascolta i tuoi passi, la Sila parla nei fruscii di ogni foglia che cade al fondo di pini svettanti verso il sole; dei fusti allineati in un picchetto d’onore non si vede né l’inizio né la fine: le cime sono troppo alte, le basi si dissolvono nel verde smeraldo di felci vaporose che viaggiano sospese come nuvole capovolte e custodiscono l’umidità della notte come l’unico tesoro possibile. La natura qui è grassa, e ride.»

Nessuna promessa di consolazione, ancor meno redenzione, non è di questo che hanno bisogno questi giovani sbattuti in un mondo di soli adulti. È il viaggio stesso, è la volontà di mettersi in gioco e la testardaggine di andare a sbattere la testa contro quel muro da cui fuggono tutti gli altri. Quando la parola non porta salvezza, lasciate spazio alla memoria, alle sue acque quiete intiepidite dal sole di un pomeriggio di fine estate, in cui immergersi assieme, corpi di carne e di ricordi, che si ritrovano nello spiraglio di un futuro superstite, portando con sé una piccolissima luce, nonostante tutto.

«Il passato non è una cosa che si lascia indietro. Ti cammina accanto, anche quando cambi strada.»

Stefano Bonazzi

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Giovani e belli

Sara Maria Serafini

Morellini

17,00 euro — 208 pagine

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