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Sarà meglio che mi affretti a scrivere prima che sia troppo tardi. Intervista a Colson Whitehead

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Colson Whitehead non deve prendersi troppo sul serio. Non ha un libro da presentare, Il ritmo di Harlem è uscito per Mondadori un anno fa, ma dal mio punto di vista è un bene perché si potrà parlare anche d’altro. Dell’America, ad esempio.

 È in Italia, ospite di Letture, festival Internazionale di Roma. Nonostante i due Pulitzer – prima di lui c’erano riusciti solo altri tre scrittori americani e nessuno era nero – un Arthur C. Clarke Award; un Andrew Carnegie Medal for Exellence; un cratere sopra una luna di Plutone che porta il nome di uno dei suoi personaggi e un mucchio di altri titoli per avere i quali conosco scrittori che sarebbero pronti a tranciarsi i mignoli delle mani, Colson si presenta vestito come se fosse domenica pomeriggio e stesse parlando via Skype con sua madre. Si trova dentro una stanza bianca. Alle sue spalle una lunga tenda leggera, le cui trasparenze lasciano intravvedere dei palazzi antichi. Indossa una camicia a quadroni bianca e azzurra a maniche lunghe, come quelle indossate da Kurt Cobain, dai boscaioli di Aberdeen e milioni di adolescenti nel mondo me compreso.

Ha cinquantadue anni, ha moglie e figli eppure una parte di lui sembra rimasta ad Harvard, quando scriveva di cultura pop sul The Village Voice. Nonostante la stempiatura incipiente, Colson si ostina a portare i rasta fino alle spalle, il pizzetto. Il tempo non gli ha segnato il volto, solo un po’ appesantito le guance, curvato le spalle. Sorride spesso, alza gli occhi al cielo e quando parla accarezza l’aria con la mano sinistra. Beve usando la destra, direttamente dalla bottiglia di plastica da mezzolitro.

Quello che ho davanti è un uomo che potrei incontrare sulla metro e non penserei mai sia uno dei grandi scrittori del nostro tempo, capace di capolavori immensi come I Ragazzi della Nickel e La ferrovia sotterranea.

Whitehead è un uomo lontano dagli stereotipi senza essere eccentrico. È uno di noi, pur essendo dotato di tutto quel talento che non avremo mai.

Di lui si dice che ami viaggiare, rilasciare interviste e presentare i suoi libri in giro per il mondo. In uno scrittore non è una cosa scontata.

Questi tre anni di pandemia li ha passati chiuso in casa a cucinare, a scrivere e ad aiutare i figli adolescenti con le lezioni da casa. Sull’argomento Whitehead cerca di mostrare quella serenità da scampati alla bufera che ci raccontiamo tutti.

Durante un’intervista rilasciata nel 2019, al tempo de I ragazzi della Nickel, Whitehead sosteneva di scrivere solo quattro pagine a settimana e di fare molti pisolini. Di quell’uomo rilassato e irriverente, tre anni e milioni di morti dopo, rimane solo l’involucro. Le ferite riemergono quando, pur sorridendo, ammette di aver maturato il pensiero che: «tutti siamo a rischio di morire domani o dopodomani, perciò sarà meglio che mi affretti a scrivere prima che sia troppo tardi…»

Autore strabiliante, ha attraversato più generi dei Radiohead pur rimanendo riconoscibile. Sostiene di non pensare ai generi se non come a strumenti, che l’idea viene prima e soprattutto viene prima la domanda: «mi divertirò a scriverlo?»

Una volta ha detto che il film che meglio rappresenta l’America di oggi sia Mad Max Fury Road, quando glielo ricordo si scioglie in una risata stridula e si tormenta le treccine con la mano destra. Forse è in imbarazzo, per un istante. Gli ricordo dell’episodio di Capitoll Hill e dei bifolchi armati che assaltarono la sede del governo vestiti come pupazzi. Gli chiedo se lo avesse previsto e lui risponde che non servivano doti divinatorie. Nel 2017 ci sono stati i cortei dei neonazisti e poi tutte le sparatorie degli ultimi dieci anni. «Non è difficile vedere che gli Stati Uniti sono una società spaccata» ammette, «si è frammentata.»

Qualcuno, gli fa una domanda sulla Cancel Culture e lui si meraviglia sul perché, da quando è in Italia, tutti gli facciano questa domanda. Lui non ha niente d’interessante da dire sull’argomento e gli pare curioso che ne siamo ossessionati.

Alla fine avrei voluto chiedergli se Martin Luther King sarebbe contento della condizione in cui riversano molti afroamericani oggi, ma evito perché dalle risposte che ha dato agli altri giornalisti ho capito quanto sia stanco di sentirsi fare certe domande da “scrittore nero”, come se avesse un debito da saldare. Piuttosto è uno scrittore, solo questo, uno scrittore americano nato, cresciuto e che ancora vive a New York. Ha un rapporto speciale con la sua città e ammette che se riuscirà davvero a capirla, allora smetterà di scrivere.

Pierangelo Consoli

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