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Sergio Peter anteprima. Altavìa

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«Altavia e lo spirito e la saliva del branco, suo terreno di compluvio e fonte d’apparizione. Distacco Levitazione Sorvolo portano piano verso Altavia. »

È in libreria Altavìa di Sergio Peter (Il Saggiatore 2025, pp. 440, €20,00). Non è un libro, è un viaggio che si libra come un aliante sospinto da correnti di spirito e carne, un cammino dentro e fuori il tempo dove l’esistenza si rivela in dettagli che tutti sentono ma pochi vedono.

La narrazione segue tre amici — Filo, il gigante sognatore; il Bosceta, mistico jazzista; e Sergio, un sopravvissuto — che si spingono tra le nebbie delle Alpi inseguendo un rifugio che è molto più di un luogo. È l’incontro con l’essenza primordiale della vita selvaggia.

Tra sentieri immersi nella nebbia e bivacchi sperduti, Sergio Peter ci trascina dentro un’esistenza segnata dal dolore e dalla speranza, dall’abisso della depressione e dalla ricerca di una nuova primavera interiore, spirituale e universale: “La tecnica dell’ululato indotto ce l’ha insegnata Alfredo. Il verso gutturale, un urlo cavernicolo e malinconico, deve partire dall’esofago. Da prolungarsi per una decina di secondi e ripetersi sette volte. Va tentato da una dorsale. Bisogna sporgersi sull’abisso della richiesta di contatto; e un richiamo rivolto alla terra stessa, una forma di riconciliazione”.

Il romanzo si dipana come un diario di bordo di spiriti inquieti, affamati di senso e rivolta, che sfidano i codici opprimenti della società attraverso cineforum, letture proibite e conversazioni infuocate: “Creavamo nicchie di libertà, finiti i romanzi ce ne andavamo per la strada forti delle nostre acquisizioni, con le scarpe che si muovevano a dieci centimetri da terra”.

Oppure scrutano inquietanti verità: “L’uomo, in questo caso il ragazzo, che ha deciso di uccidersi e tra i soggetti più pericolosi che vi siano. Può compiere qualsiasi azione senza pagarne poi le conseguenze terrene. Agisce spostandosi in uno spazio dove le leggi non lo toccano. E ontologicamente libero. Si muove come un piccolo dio malvagio nella schiera umana che non sospetta la sua intenzione”.

I lupi, silenziosi e misteriosi, diventano simbolo di quella libertà selvaggia che i protagonisti cercano disperatamente, ma che sfugge come un’ombra: «Siamo a un soffio dal contatto diretto. Sicuro che, uscendo dalla tenda per pisciare, di notte all’alpe di Stazzona, se t’imbattessi in uno di loro, sei proprio sicuro che non ti cagheresti in mano?». «Piuttosto che scappare o ferirlo, mi faccio sbranare. Che la natura faccia il suo corso, io me ne fotto. Non è colpa di nessuno.»

Intorno a loro ruotano figure come Silva, Clara e Daniela, anime in bilico tra la fragile umanità e l’indifferenza maestosa della montagna, custode di un ordine antico e fragile che il romanzo esplora nella sua tensione tra uomo e natura, tra il familiare e l’ignoto, tra paura e fascino.

Altavìa è un incastro di generi e tempi: poesia, reportage, romanzo, agiografia, delirio. Scritto con la precisione del chirurgo e la follia del poeta.

È un pugno nello stomaco e una carezza sul cuore, un manifesto contro la rassegnazione e un invito alla levitazione dell’anima, al distacco dai limiti imposti, verso una libertà conquistata tra le rovine del mondo contemporaneo.

Un inno crudo e poetico al selvatico dentro e fuori di noi, che ci sfida a vivere davvero in armonia con quanto ci circonda, accettando la sua forza e i nostri limiti.

Carlo Tortarolo

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Zio Gianni, ranchero

L’indomani li porto al ranch dello zio. Una volta era una specie di maneggio. Nei fine settimana i clienti da tutta la provincia venivano qua a esercitarsi coi suoi cavalli, molti gratis, qualcuno a pagamento: trotto, galoppo, salti, inchini, percorsi a ostacoli. Organizzava anche escursioni per i sentieri più belli della zona, insieme ad alcuni soci, tutti appassionati di selle. Un settembre era andato fino al rifugio Posa Puner, al ritorno sembrava cambiato, tanto è vero che per mesi mi aveva fatto credere di essere finito su un’emittente locale nella trasmissione piu importante del palinsesto veneto, Miane tv, e di aver vinto una gara di dressage con lo stallone.*

Aveva tanti progetti, un allevamento di lama, una piantagione di lamponi, una steakhouse ristrutturando la vecchia stalla: tutti andati in fumo. Avrebbe voluto anche metter su un’attività di ippoterapia per i bambini disabili, ma senza le competenze per farlo.

Adesso, da quando lo zio è morto, c’è solo qualche asino, per tenere pulito il terreno, le galline e i gatti randagi. Di notte i cinghiali. Tutto è decaduto dopo che una frana ha inghiottito l’edificio prin-

cipale della tenuta, quello in legno con le stanze, i letti per gli ospiti, la cucina. C’è un tronco gigante sopra il tetto di lamiera sfondato. Le ortiche non pullulano solo grazie ai ciuchini. Più sotto passa la pista ciclopedonale, una lingua nera che percorre l’antica tratta della ferrovia.

Spesso, quando c’era ancora, l’ho visto allontanare con la balestra ragazzi col trial che volevano fare la gincana tra gli attrezzi equestri – schivare i paletti, saltare sui transetti. Era troppo buono, aiutava tutti, ospitava chiunque, ma se lo facevano incazzare s’incupiva e diventava pericoloso, specie se aveva bevuto. L’ho sentito litigare coi cacciatori che volevano piazzar trappole qua dentro tutto l’anno, mandare a cagare certi emissari della Comunità Montana che lo accusavano di aver messo su una discarica abusiva. In almeno un paio di casi, stava per pestare il messo comunale, per delle multe. Era stato fermato dalla mamma.

Ladri di bestiame ce ne sono sempre stati, rumeni o albanesi diceva lo zio, col buio forzavano la catena del cancello e scendevano coi camion Morini affittati a falso nome per rubargli i purosangue e il pollame, i conigli, il mangime, il fieno, tutto, le cavezze, i ferri, il generatore, qualsiasi cosa. La prima volta l’hanno fregato, la seconda no, sono andati via con un pallino nel culo. Non lontano, visto che la mattina dopo il vivaista qui sopra si è trovato il magazzino delle piante esotiche per aria e metà della merce scomparsa. Dopo quell’episodio, lo zio aveva fatto il porto d’armi, si era comprato una Beretta all’armeria a Carlazzo. La teneva in un posto segreto nel box, in un cassetto che sapevo anch’io. Sull’accesso principale alla tenuta aveva scritto a mano in indelebile blu un cartello: SE VI BECCO, VI INCALZO IL CULO, con una specie di cappio disegnato e il simbolo dei pirati, firmato lozio, tutto attaccato.

Avrò avuto nove, dieci anni, ma me lo ricordo bene, lo zio con la canotta e la fascia rossa sulla fronte, il gilerino a rombi verde scuro e le Superga senza stringhe, aperte davanti, o gli stivali di pelle e la camicia di jeans, mentre spazzola il Pablo e gli taglia le unghie da buon maniscalco, scaccia le mosche con grandi sbracciate, assecondando la coda della bestia, leviga il manto dello stallone fino a quando ci si può specchiare dentro, prepara la seduta con il sottosella indiano, tira fuori gli speroni dal ripostiglio, prende il sedello da magutto e lo riempie di crusca, intanto ascolta la radio a palla, potrebbe essere Carlos Santana o Zucchero Fornaciari o i Pink Floyd, una schitarrata tagliente che lo carica di brutto.

Invece, quand’era nervoso, passava intere mattinate giù nella valletta da solo a tagliar robinie con la motosega, tronchi che poi accatastava e riduceva a pezzetti con l’accetta, uno per uno, dopo aver mangiato un piatto di minestrone freddo portato da casa. Ascoltavo il ritmo monotono – regolare – dei colpi inferti dallo zio alle piante, percepivo la frustrazione di fondo, ma non ne capivo il motivo. Non voleva che lo aiutassi, aveva bisogno di stare sulle sue e diceva che per me era pericoloso.

Anche se l’aveva, non usava mai la sega circolare. Temeva di amputarsi un arto.

Delle volte, desideravo vedere la pistola, toccare il grilletto, sentire che sensazione dava: ma mi era assolutamente vietato. Per tenermi occupato, mi dava un sacchetto di carta col pane secco per i

cavalli. Se poi aveva la luna buona, mi lasciava prendere la forca e distribuire il fieno alle bestie, addirittura appendere lo spago con il sale alimentare, di cui erano ghiotte. Appena mi vedevano spuntare dalla porta, correvano brontolando al galoppo verso di me, dilatando le narici: sapevo che erano contente e golosissime, la puledra – la troia, come la chiamava – il pony e i purosangue. Poi calmo ritornava su, si dava una sciacquata al busto peloso nel fontanone e tirava fuori il quad giallo dal deposito, un quarto di tanica di benzina, e via, fino al bar a bersi una birrozza a petto nudo. Mi lasciava li e tornava dopo un po’, allegro col Tuttosport e una spuma.

Ogni tanto bruciava il fogliame in eccesso, il materiale di troppo, il rüt diceva lui – pezzi di finestre, cartoni, resti indefiniti – anche nei periodi in cui era vietato. Il nostro legame era cresciuto a dismisura quando gli avevo salvato la vita, dopo che una fiammata gli era tornata indietro per un colpo di vento e aveva gridato dall’avvallamento a me seduto sulla scaletta, di tirargli una secchiata d’acqua addosso, ≪Diocaneee!≫. Tutta la giacca brasata, puzza di carne bruciata, peli neri ormai

ridotti in cenere, ma da quel giorno eravamo diventati come fratelli.

Il sabato pomeriggio venivano a trovarlo dei tizi, lo aiutavano coi lavori di rimessa in sesto del ranch, una sistematina alla palizzata, un ritocco al tetto, la costruzione di una nuova fontana o la messa in piedi della griglia per il barbecue. C’era sempre qualche lavoretto da fare. Si appartavano per delle mezz’ore nei box, io dovevo stare coi gatti, badare che le volpi non entrassero nel pollaio. Mai vista una. Mi aveva insegnato a guidare l’ape verde militare, ma solo nel terreno, senza sconfinare, potevo fare anche le derapate nel fango. Puntavo i culi dei somari, li punzecchiavo e correvano forte, suonavo il clacson per farli spaventare e sbizzarrire.

Una sera aveva beccato dei ragazzotti del paese a farsi sull’alzatina – io non c’ero – con gli occhi girati indietro e la siringa nel braccio, me l’aveva detto la mamma, un’estasi nel fienile interrotta dal rastrello dello zio piantato nella schiena; solo che alla fine era finito a drogarsi

anche lui, è stato quello a farlo morire. Magari lo faceva già da tempo, non lo so, era sempre stato insofferente. La mamma spesso dice che a ucciderlo è stata la sensibilità, la consapevolezza che, per quanto impegno ci mettesse, Grandola non sarebbe mai stato il Montana, né il Wisconsin, né il Nord Dakota. Lui mai un vero cowboy.**

Il purosangue arabo dal mantello roano, Pablo, un matto, così restio a farsi montare da estranei, mai abbastanza veloce da vincere una gara, ma di un portamento e di un’eleganza… Poi non lo avevo più visto, il cavallone più bello del ranch era sparito. ≪Dov’è il Pablo?≫Lo zio non mi dava risposte. Qualche giorno dopo, al crotto, era il quarantaquattresimo compleanno di uno di quegli energumeni, lo slavo con la coda di cavallo, Bostjan mi pare, ero invitato anch’io, nel menù c’era

stufato con polenta: solo quando l’avevo finito, mi avevano confessato, ridendo, che era carne equina: s’era venduto anche la bestia migliore pur di farsi un’altra dose. Bastardi!

Avevo vomitato tutto.

Il gioco, le scommesse al bar, i debiti, la mancanza di un lavoro fisso: non era ben visto in zona, per questo aveva imboccato la strada della dipendenza. Era convinto che anche la frana non fosse naturale, ma indotta dal proprietario del terreno di fianco che per ripicca aveva architettato tutto con un candelotto artigianale.

Lo zio possedeva una collezione di acqueviti invidiabile, non so dove sia finita. Mi aveva spiegato più volte, calcando il concetto, che la grappa si puo fare con qualsiasi cosa, basta che lo fai fermentare. Alle pere, al melograno, coi lamponi. ≪Anche con la merda, se vuoi.≫

Non si sentiva realizzato. Penso avesse solo la terza media. Sempre in testa l’idea di andare in

Spagna a mettere su famiglia. Gli piacevano i paesi caldi, ma gli sarebbe andata bene anche la Slovenia. Andalusia, Estremadura. Tutt’al più, il Veneto. Gli bastava sognare di scappare via. Al Posa Puner aveva davvero conosciuto una ragazza bionda, la figlia del proprietario, le aveva promesso di tornare e prendere in gestione la struttura. Avrebbe voluto visitare il Brasile, l’Argentina, girare tutta la Cordigliera delle Ande. Se andava male quello, sfruttare il turismo della nostra zona, dare avvio alla prima stazione di horse trekking della provincia. Tutti impegni non mantenuti.

Lo trovò la mamma un lunedì mattina di luglio sul terrazzo, un ematoma blu sul petto, gli occhi aperti, fissi, accasciato sulla sdraio col costume a slip rosso e le ciabattazze larghe da cui spuntavano le falangi dei piedi pallide, con la gatta tra le gambe a godersi l’ultimo tepore trasmesso dal corpo morto.

Dopo questa storia, ho sempre voluto saperne di più su chi fa girare la roba tossica qui in valle. Difficile a dirsi, c’è omertà: forse passa dalla Svizzera, arriva dalla Valtellina o da Como. Non lo so. Quel che è certo è che di droga ne gira parecchia, specie tra i giovani. Se vedi qualcuno balinare in piazzetta con gli occhiali da sole anche di sera, probabilmente sta spacciando.

* Per me lo era, eccome; stavo lì appollaiato sulla sediolina e lo guardavo fare le sue cose, erano affari da ranchero, certo che si!

** Tra i suoi esercizi favoriti annoverava la mezza volta rovesciata ≪in sospensione aerea≫. Sosteneva di aver coniato questa variante specifica dopo una bevuta colossale e di averla poi rodata nel tempo. Sul campo di attraversamento, quando il pubblico meno se lo aspettava, si alzava in piedi e prendeva il volo compiendo una piroetta e il cavallo

svoltava ripigliandolo esattamente un metro alla sua destra. Non gliela vidi mai fare. Da come la descriveva, sembrava più che altro un numero da circo, ma diceva di riuscirla a eseguire con una tale eleganza e fermezza da averla fatta entrare nel novero di quelle unanimemente accettate dalla fise, col punteggio massimo. Comunque, era un adepto della Scuola di Valladolid e di questo posso essere testimone, perche piu volte lo vidi gettarsi col Pablo in scarpate simili a dirupi per piu di dieci metri, giù nella valletta, riemergendo tutto pieno di terra e con il volto tumefatto. Saltando

l’ostacolo gridava ≪gra-ziano!≫ricordando le telecronache di uno dei suoi idoli, il pluripremiato G. Mancinelli.

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