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Stralunati. Intervista ad Andrea Inglese

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Stralunati è l’ultimo lavoro di Andrea Inglese edito da Italo Svevo editore nel 2022 e si compone di 22 racconti titolati più due prose senza titolo che paiono risistemare il racconto dentro un discorso già iniziato e che non si vuol finire. Stralunata l’atmosfera che ci accompagna in una lunga passeggiata i cui protagonisti sono macchine, esseri umani, animali e ci chiede: v’è differenza? Nei racconti è il sarcasmo di Far Nulla, la confusione nostalgica e rabbiosa nei rapporti di coppia (Jazz) e l’insolenza di un vicinato che ci ricorda pure un conflitto transgenerazionale e una capovolta dolcezza (La vicina). Poi, il filo rosso, tremendo e ribaltato, del lavoro, del precariato. L’aspettarsi sociale e esistenziale nell’intervista di Un mestiere, oggigiorno, il comico avvicendarsi di sentimenti macchinici e virtuali. In questi racconti la riflessività dell’ascolto è il fondamento per la dialettica noi-altro e chi legge si sente chiamato in causa anche per il congegno dell’interassenza che costruisce chi scrive. Non c’è ‘Andrea Inglese’, ma la scrittura, la parola che lo attraversa come un medium e concentra, a mò di lente, sul foglio, il discorso che appartiene a ognuno. La scrittura a volte punteggia, a volte dilata, incide ampi respiri, fatti di loop, ritorni, ripetizioni mai indifferenti, la prosa è un microscopio sul vasto tema sociale dell’essere umano. In questa raccolta Inglese interroga non tanto la realtà immaginaria che crediamo vivere, ma il reale sotteso alle menzogne che ci permettono di stare, gli uni accanto agli altri, in quieto vivere. Vivere inquieto è l’immaginario dell’autore, e di lotta, che passa al setaccio attraverso le armi dell’umorismo, per così dire, metafisico. Ma non c’è più nulla di vero dell’impossibile e del tragico disfarsi. E il mondo di Inglese è un paesaggio in cui, ormai, profeti delle nostre stesse sventure ineludibili, sappiamo scorporarci, assisterci dalla distanza siderale del nostro disincanto, senza saperci dire nulla del senso che siamo.

Gianluca Garrapa

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«E questa cosa io devo poterla scrivere, senza che la scrittura intralci la mia risoluzione pratica […]» in Quaderno di calcoli, come in altri racconti, la scrittura pone una sorta di velo, tra chi legge e chi scrive, che amplifica il messaggio, come in una pièce di Beckett (Beckett amava intralciare il senso comune del lettore). Tu vieni dall’esperienza della prosa in prosa: quanto questa pratica ha formato questa raccolta? E che mutazione è avvenuta nel passaggio dal romanzo alla dimensione del racconto?

L’esperienza di Prosa in prosa, ossia di quel volume collettivo – ristampato per altro due anni fa – è stata un’esperienza di libertà nei confronti dei generi e delle aspettative del lettore, che si appoggiava su riflessioni letterarie di marca francese (Gleize, Hocquard), ma anche su esperienze concrete di scrittura (Tarkos, Cadiot, Quintaine, ecc.). Per me si è trattato di recuperare e praticare in un nuovo contesto esperienze anche precedenti: le prose di Beckett innanzitutto, ma anche i romanzi di Robert Pinget, i libri incollocabili di Maurice Roche, ecc. Ma c’è anche tutto il filone statunitense: da Harry Mathews e Robert Coover a Donald Barthelme e Lydia Davis. E bisognerebbe ricordare almeno tra gli italiani Manganelli, ovviamente, ma anche Carmelo Bene, Malerba, e più vicino a noi il Cornia dei racconti brevi… Io ho ironicamente parlato di “terre di mezzo della prosa” (Dalle terre di mezzo della prosa | NAZIONE INDIANA), concependo questo paesaggio sia dal punto di vista genealogico sia dal punto di vista proiettivo, ossia come qualcosa che permette ancora ampie scorribande. È un discorso il mio, per essere chiari, che non sente l’esigenza di fissare una netta cesura tra alcune tradizioni del racconto novecentesco e forme di prosa più destrutturate del nuovo secolo. Una posizione che ovviamente cumula gli svantaggi, in quanto non traccia linee evolutive chiare e distinte, e naturalmente non si candida a divenire caso letterario di qualsivoglia specie. Una cosa di cui sono certo è che la forma breve in prosa permette di interrogare criticamente (e carnevalescamente) le nostre più solide coordinate di realtà, che nelle narrazioni più correnti appunto trovano in genere alcune fondamentali (e spesso consolatorie) conferme.

Sul rapporto tra le mie prose “stralunate” e i miei romanzi (due per ora, in attesa di un terzo, che dovrebbe concludere una trilogia), avrei parecchio da dire, dal momento che dovrei includere nella risposta gli altri due generi che frequento, il saggio e la poesia in versi. Mi limiterò a questo: sia il genere più codificato (romanzo) che quello meno codificato (prosa in prosa, prose sperimentali, iponarrazioni, ecc.) offrono diverse prese nei confronti del linguaggio e delle sue forme, come della realtà e dei suoi oggetti. Oggi più che mai, il lavoro di un autore dovrebbe essere misurato sulla sua globale strategia nei confronti della letteratura e dei suoi oggetti, e non ogni volta su di un singolo libro e un singolo progetto di scrittura. Ma questo ovviamente è impossibile. Per come funziona il mercato editoriale – per come può malgrado tutto funzionare – uno spazio d’ascolto di questo genere non esiste.

«C’è sempre quell’attimo, che non saprei dire bene quanto duri, se sia una sensazione puntuale, di pochi secondi, o uno stato prolungato, i dieci minuti prima di essere davvero desto e in movimento, o qualcosa di più sommerso e pervasivo, che dura una mezz’ora o di più, ma accade quando sono appena sveglio, di mattina presto, mentre fuori è ancora notte […]»: La tua scrittura è anche gesto del ‘frattempo’. I soggetti desideranti che si muovono sulle pagine agiscono sempre pensando a qualcosa, o osservando il mondo mentre sono alle prese con le loro battaglie interiori. In Al risveglio, ma pure in Il progetto, mi sembra che il tuo sia soprattutto un lungo disegno di scrittura, un transito: cosa ci puoi dire al riguardo?

Caro Gianluca dici benissimo. In molti casi, la mia è una scrittura del “frattempo”, quell’enorme spazio del non effettuale, del non ancora accaduto, spazio del desiderio, che rende plastico il mondo come argilla umida, ma si tratta di un argilla che non secca mai, o quando secca presenta delle forme radicalmente diverse da quelle perseguite tra un tempo e l’altro, tra un evento e l’altro. Quello che muove senza sosta i protagonisti di questi racconti è, in effetti, il desiderio, ma il desiderio comincia a muoversi dall’interno, e quindi c’è tutta una frenesia che attende di prendere forma negli atti e nelle cose, ma gli atti e le cose a loro volta presentano una spaventosa forza d’inerzia. In conclusione, però, va detto anche questo: il “frattempo” designa qualcosa di utopico; se qualcosa sarà in grado di saltare fuori e di scombussolare il presente, esso verrà da quel frattempo in cui il desiderio ha potuto dispiegarsi furiosamente.

«[…] e non ha neanche realizzato quale personalità importante abbia assassinato, cioè me, che avevo appena finito di salvare, proprio davanti ai suoi occhi, l’umanità intera dal terribile destino del nastro di Möbius». Ecco, tutto qui.»: in Il babbo di Möbius, l’assurdo quotidiano diventa la situazione di Sisifo: l’umanità ripete gli stessi errori, e la storia insegna che la storia non insegna nulla, avrebbe detto Alessandro Manzoni. In questo periodo, dopo l’epidemia, la guerra. E il ciclo si ripete. Rispetto al passato una novità è quella del precariato giovanile sempre più pervasivo: come riesce la scrittura a farsi specchio del sociale senza essere retoricamente impegnata e impregnata di slogan? Si possono combinare slanci sinfonici à la Proust e denuncia politica?

Ho provato a rispondere in un’intervista di Giacomo Raccis sul rapporto tra un romanzo come La vita adulta e una dimensione, diciamo, di “critica sociale” (#PremioBg22 – Due parole con Andrea Inglese – La Balena Bianca). Perfino nel romanzo che accetta alcune convenzioni del “realismo”, non si tratta mai di proporre une semplice specchio della realtà, ma di fissare sulla pagina qualcosa che non è stato ancora percepito come reale (l’incompiutezza dei personaggi, la loro ambivalenza, il conflitto tra la coscienza e l’azione). Nel caso dei testi di Stralunati c’è un filo rosso importante, che ne attraversa un buon numero, ed è quello del “lavoro”. Ma qui bisogna intenderci: abbiamo ormai un’ampia sociologia narrativa, più o meno cattiva e tagliente, sul lavoro inteso come “impiego” e quindi come impiego precario. Qui, però, io allargo il campo, o meglio vado a toccare due dimensioni ormai contradditorie: il lavoro, inteso in senso classico, filosofico, di trasformazione della realtà e anche impronta umana nel mondo, e il lavoro inteso in senso capitalistico come anello della catena produttiva. Non basta più dire oggi – anche se non lo si dice più da un pezzo – che il lavoro è alienato. È l’agire stesso dell’umanità, dentro o fuori il lavoro, che perde sempre più senso. Di questa insensatezza del fare sono impregnati i miei personaggi, ma in loro essa si rivela fin dai gesti più elementari, come quello ad esempio di alzarsi da letto… Tornando ora alla “denuncia politica”, essa può esistere laddove esistono dei collettivi, che elaborano proposte alternative d’organizzazione della società e si sforzano di trovare forme di lotta perché vengano accolte da una maggioranza. Ma la dimensione critica di questi racconti si pone al di qua di questo fronte, perché un tale fronte è attualmente invisibile o indiscernibile da proposte e proteste che non vanno da nessuna parte. Quindi questa critica, se venisse percepita, starebbe a dire semplicemente qualcosa di questo tipo: che genere di politica può nascere dalla condizione che qui si cerca di mettere in figura?

«L’antefatto lo conoscete. La coppia è giovane e inesperta, eppure non priva di entusiasmo. Hanno nomi importanti, che lasciano il segno: Adamo ed Eva.» I due fratelli e lo Zio è un piccolo capolavoro di parodia. Dall’incipit si comprende bene su quale materia hai lavorato, non tanto per dissacrare un dato di fatto per altro indimostrabile, quando per leggere in chiave comica la favola di Adamo ed Eva, la favola della condizione umana. Che rapporto hai con l’umorismo e con l’oralità performativa della scrittura?

Posso dire che ho un rapporto di fratellanza con la letteratura umoristica, ossia una letteratura che non prende seriamente il mondo così come è solitamente narrato e descritto, e quindi non dà per acquisito e ovvio nulla, in particolar modo le forme di rappresentazione dell’esistenza umana. L’essere umano, la società in cui vive, i miti più sorpassati, come le narrazioni storiche più sacralizzate, sono nel discorso umoristico considerate come materia provvisoria e sempre malleabile; si può sperimentare su tutto, dal ruolo della punteggiatura alle partizioni tra reale e irreale. Da questo punto di vista l’umorismo è una sostanza corrosiva di ogni possibile credenza, di ogni punto fermo condiviso. Il punto, poi, è come utilizzarlo, secondo quali strategie, contro quali universi di oggetti e valori. Quanto all’”oralità performativa della scrittura”, formula da te creata, mi ci riconosco. Io la chiamo l’atletica dell’enunciazione, e vorrei che i miei testi fossero apprezzati almeno per questo, ossia per la ritmica anomala che io tento d’iniettare in una parola scritta, che mira a riattualizzare l’esitazione precipitosa del parlato, che rompe ogni compostezza e misura. Ovviamente, si tratta di un parlato che non esiste, di un parlato ipotetico, di una parola che si situa in uno spazio straniante tra spontaneità e calcolo, abbandono e sorveglianza.

«E a questo punto sentiamo rispondere (con la nostra stessa voce): «Ma certo, siamo stati troppo sbadati. Corriamo incontro a questo schifo. Andiamoci pure assieme, tenendoci per mano, risoluti».» L’ultima prosa, come la prima che apre la raccolta, non ha un titolo. In quel ‘nostra stessa voce’ evidenzi una costante del tuo percorso stralunato: l’altro, e l’Altro (à la Lacan). Qui il paradosso è ostensione del desiderio. In rapporto al desiderio siamo uguali. Come sono nate queste situazioni e come sei riuscito a defilarti dalla pagina?

Dal momento che dai tuoi racconti non possiamo dedurre quasi nulla della tua esistenza, puoi dirci dove scrivi, quando scrivi, dove cammini quando non scrivi? in quale città o paese è nato Stralunati, in che stanza, in che bar? sei mancino o destrorso? passeggi? in bici, in auto, osservi alberi? scruti cornicioni, affondi lo sguardo nel cielo, segui le onde del suono e dell’acqua? quali sono i rumori della città e quali i silenzi delle vaste campagne? fumi? bevi? quanto pesi? scrivi dopo cena, prima di pranzo? quando? la tua è scrittura di spostamento, di stasi, di spazio, del corpo?

La mia scrittura è una scrittura di agitazione vana, di tremendo dispendio di energia corporea e mentale, che non trova uno sbocco ragionevole, ma se lo trovasse, rischierebbe di rovesciare a gambe all’aria una quantità di cose insopportabili e intollerabili. Per il resto, il mio sogno è di scrivere su di un kayak, mentre il mezzo è rapito dalle acque, e rimani per un attimo sospeso tra la possibilità di manovrare a colpi di pagaia per evitare una roccia che ti ribalterebbe, o di guardare un cormorano, che si rituffa nella corrente.

Che domanda o che domande vorresti porre a chi ti legge?

Ma avete un po’ goduto di quanto avete letto?

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Andrea Inglese, Stralunati, Italo Svevo ed., 2022

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