È di ieri, 21 gennaio 2025, l’uscita nelle librerie della nuova edizione di Berlin Alexanderplatz, capolavoro di Alfred Döblin. A pubblicarlo, dopo novantaquattro anni dalla prima edizione italiana, Mondadori editore negli Oscar Moderni.
L’encomio da fare alla casa editrice è doppio. Infatti, non ha solo riportato in libreria una edizione di quello che a buona ragione si può definire come un classico imprescindibile della narrativa contemporanea e mittelleuropea, ma lo ha dotato di una nuova traduzione accurata e completa.
A firmarla, Giusi Drago, già apprezzata su altri autori come Carl Gustav Jung, Gustav Meyrink, Rainer Maria Rilke, Robert Walser, Ilse Aichinger per l’attenzione e l’accuratezza messe nel traghettarli dal tedesco all’italiano.
Qui si è trovata alle prese con la lingua magmatica e ritmica di un libro decisamente complesso, una lingua che tutto vuole inglobare al suo interno, così da rendere il poliedrico universo di una metropoli quale era la Berlino degli anni Venti del Novecento.
Ne esce un testo dove le scelte di traduzione valgono per l’accuratezza e anche per quella piccola dose di rischio che si deve sempre avere quando si interpretano lingue diverse dalla nostra così da importarle nella nostra.
L’abbiamo raggiunta subito dopo l’anteprima – che Satisfiction ha dedicato ieri al romanzo – per parlare con lei proprio delle difficoltà e dell’importanza di tradurre Berlin Aleksanderplatz, inserirlo nel flusso del nostro tempo, farlo parlare al lettore di oggi. Insomma, di che onere implichi il tradurre. Almeno se hai davanti un autore come Alfred Döblin.
Sergio Rotino
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Quali difficoltà hai incontrato a ritradurre Berlin Alexanderplatz, dopo quasi cent’anni dalla prima traduzione in italiano di Alberto Spaini? E quali problemi ha presentato rendere in italiano la lingua usata da Döblin?
Moltissimi problemi, che hanno dato tanto da pensare.
Bisogna ricordare che la traduzione di Spaini che esce nel 1931 per la casa editrice Modernissima è in realtà la prima traduzione mondiale del romanzo pubblicato nel 1929.
Spaini si lancia quindi coraggiosamente e tempestivamente nella traduzione di un testo che era stato considerato intraducibile da germanisti quali Lavinia Mazzucchetti e Enrico Rocca in quanto “vernacolo e locale senza rimedio”.
Lo racconta un bell’articolo di Daria Biagi intitolato La strada via terra della Weltliteratur. Sulla prima traduzione di Berlin Alexanderplatz. Quindi, l’aspetto, per così dire, irredimibilmente locale della lingua di Döblin, una lingua viva, parlata dai suoi personaggi proletari, asociali, marginali, sconsigliava una traduzione: il romanzo appariva troppo vincolato al contesto berlinese, pieno di allusioni a oggetti e situazioni potenzialmente incomprensibili a un lettore che non conosca l’originale.
Già parlare di lingua al singolare, a proposito di quella usata da Döblin nel romanzo, è forse riduttivo: meglio dire che ci sono diversi livelli e stili linguistici, il che dipende innanzitutto dalla tecnica del montaggio cinematografico scelta da Döblin, ma è anche espressione del suo grande talento e della sua passione per i giochi linguistici. Si percepisce quasi in ogni pagina quanto Döblin si diverta!
La funzione dei diversi livelli linguistici è, tra l’altro, quella di raggiungere l’obiettivo di delineare il ritmo delle pulsazioni della vita metropolitana.
Puoi andare più a fondo su questo punto?
Oltre all’utilizzo del berlinese, Döblin inserisce il linguaggio dei teppisti e dei bassifondi (Gaunersprache), il linguaggio biblico (la parabola di Biberkopf è quella di un moderno Giobbe), linguaggi specialistici e scientifici (medicina e scienze naturali), elementi linguistici della pubblicità ed “elementi poetici popolari” (per esempio canzoni per bambini, liriche).
Tutto questo va a costituire una vera babele linguistica dove lo scrittore gioca a fare ibridazioni e collage fra alto e basso: pubblicità, versi biblici, articoli di giornale, poesie di Goethe e Schiller, dati statistici, bollettini metereologici, canzoni dell’epoca, naturalmente in rima.
Ce n’è abbastanza per terrorizzare un traduttore.
Nel 1930 a metà traduzione circa, Spaini scrive alla sua revisora e consulente editoriale Alessandra Scalero: «Franz Biberkopf sarà la mia rovina.»
Come lo capisco! Mi sono molto riconosciuta in questa autoprofezia di fallimento!
Spaini continua la lettera scrivendo «ne avevo già tradotto più di mezzo, ho ricominciato a correggerlo, e una buona parte ho dovuto rifarlo. Mi pare che ora sia su per giù presentabile – certo, la prossima volta mi metterò piuttosto al Faust – mi darebbe certo più gloria».
Come spiega Daria Biagi, Spaini e la Scalero si concentrano molto sul “processo mentale della narrazione”, vogliono rendere la logica del modo di parlare dei personaggi e adottano, per riprodurla, una sintassi spezzata e forme dell’italiano colloquiale. Inoltre sono molto attenti alla resa musicale delle canzoni e delle rime. Spaini decide invece di sacrificare del tutto il dialetto, un elemento che reputa eliminabile e secondario.
Da questo punto di vista mi sono sforzata di prendere un’altra strada, nei limiti del possibile.
Come valuti la traduzione di Spaini, tenendo conto degli anni in cui operava?
Spaini era un personaggio dotatissimo e affascinante come si può vedere dalla foto, traduttore, giornalista e scrittore, ma anche mediatore editoriale.
Triestino e quindi naturalmente “tedeschizzante”, a soli vent’anni traduce con Rosina Pisaneschi con cui era fidanzato – anche lei straordinaria figura di traduttrice, laureata in letteratura tedesca con Giuseppe Antonio Borgese all’Università di Roma e collaboratrice della “Voce” – i Wilhelm Meisters Lehrjahre di Goethe. La sua traduzione di Berlin Alexanderplatz è molto brillante, vivace, ritmica.
I critici dell’epoca, anche quelli che avevano dubbi sulla sua realizzabilità, lo elogiano per aver “salvato quel che è essenziale”. In un certo senso ha quasi cent’anni portati molto bene!
Per altri aspetti però mostra i segni del tempo, perché ci sono alcune omissioni di termini, piccoli tagli di espressioni non comprese, qualche fraintendimento, ma anche qualche censura di tipo culturale.
Queste scelte legate a tabù del proprio tempo – per esempio nel capitolo Lina le canta ai finocchi cade il termine “travestiti” tradotto con “fratelli” – appaiono oggi delle manipolazioni non giustificate e nessun traduttore potrebbe procedere con la stessa disinvoltura nel tagliare parti oscure o potenzialmente scandalose, anche perché siamo molto meno gravati da difficoltà di comprensione e provvisti di numerosi aiuti tecnologici e critici.
E con la resa del dialetto? Come ti sei regolata alla fine?
Per quanto riguarda il dialetto, dopo molti tentennamenti, mi sono convinta a sperimentare qualcosa, nella traduzione, che non fosse una semplice e consueta rinuncia come quella di Spaini.
Sempre la Biagi ha mostrato che la completa eliminazione del dialetto – che nel romanzo non è solo un elemento mimetico e di caratterizzazione locale, ma anche una manifestazione della pluridiscorsività sociale – rischia di avere conseguenze sulla resa del discorso indiretto libero, cioè rende più difficile distinguere la focalizzazione e “l’intreccio polifonico delle voci del narratore e dei personaggi”, e fa perdere al testo la sua tridimensionalità. Non solo: Spaini rinuncia a rendere il dialetto anche per ragioni ideologiche, di politica culturale, come se un romanzo moderno e avanguardistico come Berlin Alexanderplatz rischiasse di apparire provinciale, se si fosse scelto di tradurlo utilizzando un linguaggio dialettale.
Del resto, i traduttori sanno che non è opportuno anzi, potrebbe avere effetti grotteschi scegliere un dialetto al posto di un altro: perché mai i berlinesi del romanzo dovrebbero parlare il milanese e non il veneziano? E perché allora non il romanesco, trattandosi di una capitale?
Ho quindi deciso di tentare la creazione di una minima lingua pseudodialettale, attraverso un pastiche di espressioni provenienti in parte dai dialetti settentrionali a me familiari – sono nata a Trento, anche se di padre siciliano, e vivo a Milano – e in parte inventate…
Nella mia idea questa leggera coloritura dialettale e le piccole alterazioni fonetiche e morfologiche, fatte a imitazione del dialetto berlinese, dovrebbero apparire come un tic linguistico dei personaggi, una leggera marcatura. Lo scopo è seguire da vicino il ritmo del berlinese, o döblinese che dir si voglia, cioè una lingua ellittica, “storta”, nuda, sgrammaticata: i personaggi parlano a volte senza verbo o senza soggetto.
In Berlin Alexanderplatz colpisce questa specie di flusso di coscienza che Döblin crea per dare corpo alla sua scrittura. Eppure rifiuta il parallelo con Joyce anche se qualcosa ritorna fra i due. Tu hai percepito questa similitudine in filigrana nella struttura del romanzo e del linguaggio?
Döblin è tornato spesso su questo legame fra lui e Joyce. «Dicono che avrei imitato Joyce, ma non ho bisogno di imitare nessuno. La lingua viva che mi circonda mi è sufficiente, e il mio passato mi offre tutto il materiale immaginabile» scrive.
Quando legge Joyce, che naturalmente apprezza moltissimo, ha già scritto più di un terzo del suo libro. Molte caratteristiche stilistiche che accomunano l’Ulisse e Berlin Alexanderplatz – il cosiddetto flusso di coscienza, la tecnica del montaggio cinematografico e l’intertestualità – si trovano già in opere precedenti di Döblin, che le condivide con la letteratura d’avanguardia tedesca, in particolare espressionista e dadaista.
Non è che rifiuti il parallelo con Joyce – dice espressamente che leggere l’Ulisse ha «dato vento alle sue vele», ma rivendica la propria autonomia. Per esempio, riguardo la tecnica dell’associazione, molto importante in entrambi i romanzi, puntualizza di averla imparata dalla psicoanalisi e di conoscerla forse più nello specifico di Joyce perché la praticava in prima persona, “dal vivo”, grazie alla sua attività di medico psichiatra.
Anche questo, credo, è un punto importante nella storia che sta dietro al romanzo.
È proprio grazie alla sua professione e al fatto che gli era stato affidato un reparto di osservazione criminologico, che Döblin decide di descrivere il tipo umano che abita la Berlino orientale, una folla di uomini minati dai problemi psichici ed economici che la guerra ha lasciato loro in eredità.
La scrittura si intreccia così strettamente ai ritmi pulsanti, disintegrati e accelerati di una metropoli quale Berlino, che era “moderna fino alla nevrastenia”.
Non mi avventuro qui a distinguere quanto Alfred Döblin ha elaborato in autonomia o ha adottato a posteriori molte delle soluzioni innovative di Joyce al fine di scrivere il suo grande epos di una metropoli imperiale. Certo è che entrambi gli autori utilizzano i loro strumenti stilistici per creare un “ritmo” temporale in cui la città moderna emerge come luogo di formazione identitaria, di isolamento e di estraneazione, mettendo in tal modo fine alla tradizione del Bildungsroman borghese, perché gli ambienti urbani non forniscono «né la continuità temporale né l’omogeneità culturale richieste dallo storicismo tradizionale», per dirla con Tobias Boes.
E comunque Döblin mi pare che resti lontano da Joyce, per quanto riguarda il testo.
I due romanzi fanno un effetto molto diverso. Si può definire Berlin Alexanderplatz, come fa Benjamin, un «monumento al berlinese», che «infradicia fino all’osso» ogni pagina «con la schiuma della vera lingua parlata».
Nel romanzo è la tracotanza tipicamente berlinese che viene curata a furia di batoste e da ultimo è la morte stessa che, parlando a tratti in dialetto, «ne canta quattro» a Biberkopf.
Insomma, Berlin Alexanderplatz è anche un’approfondita rappresentazione artistica dei bassifondi metropolitani, della vita dei ladri, dei truffatori, dei piccoli trafficanti e delle prostitute che parlano la loro Gaunersprache. Franz Bieberkopf è un proletario incolto, il suo mondo culturale è quello delle canzonette, è un rappresentante della Repubblica di Weimar e delle sue contraddizioni, un uomo ingenuo, quasi un buon selvaggio che si identifica sentimentalmente con gli operai proletari di sinistra, ma in nome dell’ordine e della pace lavora vendendo giornali völkisch e portando al braccio una croce uncinata.
Anche Fassbinder parla di Döblin versus Joyce…
Fassbinder ne scrive nel suo I libri liberano la testa. Precisamente quello che dice è: «posso immaginare che i due autori abbiano inventato nello stesso momento le stesse nuove tecniche narrative, perché no? Come nella storia così anche nella letteratura niente è spiegabile da solo. Più appassionante della domanda se Döblin conoscesse l’Ulisse è, secondo me, sapere se la lingua di Berlin Alexanderplatz sia stata influenzata dal ritmo della ferrovia urbana che sferragliava allora, come ora, davanti alla stanza di Alfred Döblin. Di queste cose, dei frastuoni della grande città, del suo caratteristico ritmo appunto, dell’eterna follia di un eterno andirivieni è impregnata la lingua. E dalla consapevolezza della vita di una metropoli, da una particolare osservazione di tutto ciò che ferve nella città deriva sicuramente la tecnica a collage che Döblin utilizza nel suo romanzo, uno dei pochi che hanno come tema la grande città, laddove vivere significa prestare costantemente attenzione ai toni, alle immagini, ai movimenti. E così mutano i mezzi della tecnica narrativa adottata”.
A me Berlin Aleksanderplatz è parso un romanzo che riesce a essere dannatamente complesso eppure al contempo lineare. È stata una percezione che hai avuto mentre lo traducevi?
Non lo definirei lineare: è complesso, senz’altro. A meno che con linearità tu non intenda che ci troviamo davanti alla straordinaria descrizione di un’evoluzione della psiche: In questo senso il libro è stato definito da Benjamin come “l’educazione sentimentale di un malfattore”.
Anche da questo punto di vista, tuttavia, non vedrei una linearità, anche se assistiamo nel romanzo a uno sviluppo psicologico che termina con una sorta di redenzione.
Questo sviluppo è imprevedibile, e così ce lo presenta Döblin: «È stato un processo di illuminazione molto particolare. Franz Biberkopf non ha percorso quella strada come noi. In quella strada buia lui correva, sbatteva contro gli alberi, e più correva, più sbatteva contro gli alberi. Era ormai buio, e quando sbatteva contro gli alberi chiudeva gli occhi spaventato. E più sbatteva, più forte serrava gli occhi spaventato. Con la testa tutta sforacchiata, quasi privo di sensi, è arrivato alla fine. Cadendo, ha aperto gli occhi».
La redenzione, se così si può dire, si condensa in una massima, che Biberkopf dice a se stesso: «Sappiamo quel che sappiamo, l’abbiamo pagata cara».
Si è discusso a lungo sul finale aperto o ambiguo del libro, ma quel che vorrei mettere in evidenza è che si tratta di un testo potentissimo in cui il profano si mescola con il sacro: il panorama metropolitano futurista si trasforma in “teatro del mondo religioso”, come nota Muschg.
Compaiono due angeli che, come nel Cielo sopra Berlino, vegliano su Biberkopf e poi lo abbandonano, ritorna la meretrice di Babilonia a dorso della sua bestia, e infine campeggia la Morte presentata come “grande immolatore, tamburino e branditore di scure”. Mentre traducevo la danza macabra e il canto della morte nel nono libro, avevo i brividi. Anche tradurre le pagine sul mattatoio mi ha causato i sudori freddi, ma su questo voglio tornare…
In realtà Berlin Aleksanderplatz è un libro profondamente violento e mistico.
Ecco, in questa commistione vedo la sua contemporaneità. C’è un elemento di forza destinale a cui Biberkopf si ribella: «sono berlinese, mica greco» dice un personaggio minore. Biberkopf viene colpito per tre volte e per tre volte cade. Ha una capacità di soffrire inaudita. Forse per questo lo si ama. È un personaggio dall’interiorità ricchissima e travolto dalla vita, nonostante sia un violento dalle furie incontrollate: ha ucciso di botte la sua donna, Ida, che sfruttava come magnaccia. È segnato dalla violenza della guerra, in una sorta di coazione a ripetere replica ciò che vorrebbe rimuovere. Non solo commette questo femminicidio, ma una volta uscito dal carcere di Tegel, con il suo amico Reynold, fa fiorire la cosiddetta “tratta delle bianche” in cui si scambiano le fidanzate.
Ma mentre Reinhold nel romanzo è rappresentato come la potenza della malvagità fredda, che non cambia mai ed è cristallizzata, Biberkopf è un elemento naturale che evolve, si piega e si trasforma. La sua “malvagità” è perforata dalle sofferenze, perde un braccio, è un novello Giobbe che tocca il fondo del dolore e ne esce trasfigurato.
A questo proposito Döblin ci mostra le conseguenze di quel processo che, come scrive Paolo Capuzzo, nel corso della Prima guerra mondiale e del primo dopoguerra, ha mutato radicalmente il rapporto tra i sessi «minacciando di alterare la solida gerarchia che regolava il controllo maschile del corpo femminile. È su questo sfondo sociale che prosperano fantasmi che mettono in scena le paure maschili di essere soggiogati dal potere di seduzione delle donne, generando reazioni violente e prive di controllo come il Lustmord, l’omicidio a sfondo sessuale, oggetto di dipinti di Otto Dix e Georg Grosz, del quale si registra un sensibile incremento a Berlino negli anni della Prima guerra mondiale».
Qui torno sulle pagine del mattatoio, che è un altro motivo di grande contemporaneità per come vengono sono trattate. Il tema viene ripreso contrappuntisticamente più volte nel libro, precisamente nel capitolo intitolato biblicamente Poiché la sorte dell’uomo è la sorte della bestia; come muore l’uno, così muore l’altra. Döblin dedica una lunga sequenza all’ubicazione, all’estensione dell’area totale del macello di Berlino, alla descrizione dei processi di lavoro e di macellazione, ai dati sul volume del mercato zootecnico e sul fatturato.
Le informazioni, presentate in modo distaccato, sono intervallate da descrizioni sconvolgenti della mattanza dei maiali, di un vitellino e di un toro, con la quale si stabilisce un riferimento diretto al destino di Franz. Occorre ricordare che nel libro il tema del sacrificio, della vittima sacrificale, è presente anche con l’immagine di Isacco e Abramo.
La carneficina degli animali richiama l’ammazzatoio del Primo conflitto mondiale in cui le persone sono state scannate innocentemente e brutalmente come animali al macello. Richiama anche le dinamiche fagocitanti della metropoli.
Ma le pagine sullo Schlachthof berlinese rappresentano una sorta di dinamica sociale di prefigurazione: la mattanza degli animali descritta nella sua razionalizzazione e organizzazione industriale anticipa ai nostri occhi di lettori l’organizzazione tayloristico-fordistica dei campi di sterminio nazisti.
Sei del, diciamo, “partito” che sente la necessità di aggiornare non dico tutte le traduzioni, ma almeno quelle dei grandi classici contemporanei e non?
Non è una questione di partito, ma proprio qualche cosa che accade inevitabilmente. Perché io traduco oggi, nel 2025. Anche solo il fatto, come dicevo all’inizio dell’intervista, che come traduttrice ho a disposizione molte più informazioni e maggiori possibilità di fare ricerca e di chiarire le espressioni oscure, mi può consentire forse in alcuni passaggi testuali una maggiore aderenza, un maggior rispetto “filologico” dell’originale. Salvo il fatto che si può sempre naufragare in un altro punto. Ma una nuova traduzione non è mai – né vorrebbe mai essere – una rettifica critica della precedente traduzione.
Come dice Claudia Zonghetti, splendida traduttrice di classici dal russo, ogni nuova traduzione (cioè ogni nuova lettura che fa il traduttore di un classico) fa uscire dal silenzio l’opera originale e aggiunge qualche cosa.
Al di là del fatto che la lingua “invecchia” e, con il passare dei decenni, non trova magari lettori capaci di decifrarla con naturalezza, tradurre daccapo un classico risponde alla necessità di trovare una lingua vicina a chi legge. Ma questo non significa addomesticarlo o snaturarlo.
Dare corpo alle parole dell’autore significa trovare la lingua consona alla nostra generazione. Ma con grande rispetto.
Per esempio, nel tradurre le espressioni gergali non ho voluto dare né una patina troppo vecchiotta né a tutti i costi una sfumatura giovanilistica, di gergo giovanile contemporaneo. E poi gli stili di traduzione variano. Oggi si tende a non “italianizzare” i nomi o i realia, la traduzione dei nomi di luoghi berlinesi non porta in effetti alcun vantaggio, anzi implica una perdita di colorito locale. Al lettore odierno, del resto, si può chiedere lo sforzo di sopportare le peculiarità degli etnoculturemi che aiutano l’ambientazione, tanto più in quanto Döblin vuole che la città sia fortemente presente nelle pagine del romanzo.
Comunque essendo un romanzo profondamente radicato nella cultura tedesca e in particolare della repubblica di Weimar, ho deciso – anche su saggio consiglio di Elisabetta Risari – di corredarlo con una serie di note per chiarire i riferimenti storico-culturali. Note che sono state poi perfezionate dal meticoloso lavoro di Alberto Antonini.
E questo fa capire quanto un libro, specialmente se tradotto, non sia un lavoro in solitaria…
Vero. A proposito di gran lavoro di squadra, ne approfitto per ringraziare Silvia Albesano e Margherita Carbonaro, che sono a loro volta validissime traduttrici che ho avuto la fortuna di avere come compagne e consigliere in questo lavoro logorante. Senza le discussioni con loro, un confronto chilometrico e multitecnologico – fra invii di link, telefonate, whattsapp, fotografie – il libro non sarebbe stato quel che è.