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Tea Ranno anteprima. Gioia mia

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E’ in libreria, edito da Mondadori, Gioia mia il nuovo romanzo di Tea Ranno. Scrittrice siciliana ha esordito con Cenere (E/o, 2006), libro finalista ai premi Calvino e Berto e vincitore del premio Chianti. Sono seguiti i romanzi In una lingua che non so più dire (E/o, 2007), La sposa vermiglia (Mondadori, 2012), vincitore del premio Rea, Viola Fòscari (Mondadori, 2014), Sentimi (Frassinelli, 2018), L’amurusanza (Mondadori, 2019) e Terramarina (Mondadori, 2020), che ha ottenuto il premio Città di Erice. Solidarietà e intraprendenza al femminile sono le fondamenta della Castidda, masseria dal panorama meraviglioso: “l’Etna in lontananza a sinistra, poi, scorrendo via via lo sguardo verso destra, la piana di Catania, la costa saracena, Augusta e il suo porto, l’isola Magnisi, la Targia e infine, Scala Greca, la propaggine più a nord di Siracusa: un pezzo di costa jonica su cui ogni mattina sorgeva il sole dei giusti, diceva suo nonno.” Luisa ne è la tenace proprietaria che resiste per mesi all’invidia e alla prepotenza di un sistema che la vuole in silenzio sino a quando un sonno immobile la (ac)coglie. La profondità di quel “dormire” sa scavare nel suo passato e porta in superficie brandelli di ricordi, anche quelli più dolorosi. Una narrazione che sa registrare il dolore nella sua complessità, “quel dolore di cui abbiamo pudore, che vorremmo nascondere e che invece ci trema nelle parole”, parole che si sono fatte possibilità di sogno.

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Fu il nonno a dirmi dell’ingranaggio che abbiamo nel petto: “Che assomiglia a un orologio, ma non è propriamente un orologio, gioia mia, perché misura gli attimi e pure i sospiri, ci fa camminare nel presente e pure, per esempio, nella contentezza, perché è un orologio sentimentale, che ci dà conto del passato e del futuro, ma, soprattutto, della sentimentalità che inzuppa un certo passato o un certo futuro, per cui ci sono giorni che sono più belli da ricordare, e altri che bisogna buttarli a mare, perché è meglio che se li inghiotta la scordanza, gioia mia, ché a noi ci piace di vivere contenti, no?”. “Ma davvero assomiglia a un orologio quel cusuzzo che abbiamo nel petto?” “Che certo! Ma siccome è frutto della tua immaginazione, tu puoi entrare nell’ingranaggio e puntare la lancetta dove vuoi: vivere, per esempio, quel giorno che avevi tre anni e ti portai alle giostre, te lo ricordi? O buttarti avanti, a quando avrai trent’anni e alle giostre ci porterai i figli tuoi.

Accussì funziona il tempo dell’amurusanza, gioia mia, che non è uguale per tutti, nossignore! Io ho il tempo mio e tu hai il tempo tuo. Certo, quando camminiamo vicini e facciamo le stesse cose, i nostri orologi si accordano e noi viviamo lo stesso tempo: mangiamo lo stesso pane, i fichi appena colti, un pezzo di formaggio, una rusidda di pasta di mandorla, e siamo io e tu nello stesso momento.” “Davvero?” “Sì. Ma anche no. Perché può essere che, mentre camminiamo assieme, tu te ne vai con la mente a domani, e io me ne vado con la mente a ieri, e viviamo ora, ieri e domani nello stesso tempo. Non è una bellezza? E questo non vuol dire che siamo pazzi, folli, mezzi ’mbriachi, come tua nonna certe volte mi dice. Nossignore! Significa che noi abbiamo un orologio sentimentale che conosciamo, mentre gli altri non sanno di avere né un orologio che ci cammina la vita e segna il punto d’inizio e quello d’arrivo, né sanno che quell’orologio misura i sentimenti. Ché gli altri non ce l’hanno il tempo per pensare, per sfantasiarsi, gioia mia: si ’mbriacano di televisione, di motori, di chiacchiere, di birre e partite a scopone o a tressette, e la vita passa, e la sentimentalità passa, e non sanno chi sono, chi sono stati e chi saranno. Dammi quel pezzo di torrone va…” Mia nonna diceva che il nonno era uno strologo che mi riempiva la testa di chiacchiere, che mi abbarruliva, che a forza di portarmi in campagna a cafisiare con mangime e galline mi faceva addiventare una vìllica.

Ma di lei non m’importava, non appena il nonno diceva: “Ci veni cu mia?”, io lasciavo pure i soldi a contare e lo seguivo. Lei gli gridava appresso: “Làssila a picciridda, ché a casa c’è chiffari”. Lui si fermava, mi guardava. Io gli scacciavo l’occhio, a lei rispondevo che il mio chiffari era al milliccuccu, che giusto quel giorno lo dovevamo concimare. Lei arricciava il naso, schifata: “Lulù, io a te non ti capisco proprio: la campagna cosa di villani è. Possibile che tu, accussì finìcchia e bidduzza, devi addiventare una vìllica?”. Io alzavo le spalle, mi mettevo gli stivali e salivo sulla 500. Una 500 azzurro scuro che lui guidava sicurissimo, pure in mezzo alla nebbia, ché d’inverno c’è sempre la nebbia a Terramia. Solo là mi sentivo per davvero a casa. Il resto della famiglia non lo capiva, diceva che il nonno mi aveva incantesimata. Io pensavo che era stato il milliccuccu a incantesimarmi, però non lo dicevo. A proposito del milliccuccu: un giorno mio cugino mi raccontò una storia spaventosa, e cioè che quell’albero l’aveva portato sulla terra Lucifero quando era stato scacciato dal paradiso, e siccome odiava tutto e tutti, aveva lasciato sopra di lui i segni della sua malevolenza, perciò le foglie a forma d’artiglio: era la sua firma, quella. Corsi dal nonno: “È vero che il milliccuccu è l’albero del diavolo?”. Si mise a ridere: “Te lo disse quel fesso di Nicola, vero?”. Calai la testa. “Gioia mia” rispose, “certuni s’inventano le minchiate perché mangiano ignoranza e screanzatezza. Vieni con me, vieni.” Mi portò sotto l’albero: “Prova ad abbracciarlo” disse. “Lo so che non ci arrivi, che le tue braccia sono troppo corte, però abbraccialo lo stesso, posa l’orecchio sulla sua pelle, io vado a dare il mangime alle galline, tu stai qui, vedi che ti cunta.” Se ne andò, e io restai abbracciata all’albero. Gli occhi chiusi, la guancia sulla corteccia, non ci pensai proprio al diavolo, perché i diavoli, così come i morti ammazzati, gli affogati, gli impiccati e i suicidi, di cui erano pieni i racconti di mia nonna, sparivano al suono della risata di don Nino, che diceva: “Se tua nonna mettesse nella minestra lo stesso sale che ci mette nei cunti, la vita mia sarebbe più sapurusa”. Aveva la pressione alta, perciò mia nonna cucinava per lui senza sale, ma era meglio che questa cosa non gliela ricordavo, perché sennò, poi, si metteva a pensare agli affari suoi e a me non mi dava conto. Restai lì, a respirare piano piano, a sentire che il cuore batteva lento, contento, perché all’improvviso era come se dall’albero venisse un calore di madre che dalla pelle mi passava al sangue, e il sangue scorreva dolce come una carezza. Abbracciata all’albero capii che lui non mi parlava con le parole, come stupidamente avevo pensato, ma con quel trapasso di calore che faceva suonare dentro di me la musica della contentezza. Perciò tornavo lì ogni volta che potevo. Come mai, allora, per trent’anni me ne distaccai? Ora che ci penso, mi dico che fu l’albero a salvarmi. Puntò l’orologio sentimentale sul futuro, e mi sversò dentro linfa di rassegnazione. Non fu un taglio, uno strappo, no, solo un puntare l’orologio sul futuro, sul tempo del ritorno e della risorgenza. Ma allora che ne potevo sapere? Manco dei trent’anni sapevo, ché trent’anni, quando incomincia il conto, un’eternità sembrano, e invece nel mezzo ci sono tanti di quei fatti che l’orologio cammina e tu te ne scordi. Poi, però, succede quella cosa che scatta l’ora e arrivi dove dovevi arrivare.

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