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Tea Ranno. Gioia mia

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Non basta un sorso d’acqua per superare lo scanto. La paura affonda nelle viscere i suoi artigli e là si ferma, per un po’. Può stazionare attimi eterni oppure prendersi l’anima e la carne in modo silente per un tempo preciso sino a quando ti viene una fitta al cuore così grande che ti sembra di morire all’istante. Il tanfo della paura lo avverti in gola, ti secca la lingua, ti lascia muta. Fai un passo indietro per portarti meglio in avanti. Lo scatto della risolutezza, che ti permette di equipaggiare bene il coraggio, è la spinta verso un atto di forza. Arriva d’istinto, all’improvviso. È un fuoco che ti sveglia accendendoti di energia, sopita dalla pausa di terrore che maschera gli occhi di nero, quasi a spegnere la luce sulla vita. Da quello scuro, che si mangia anche il respiro, riemergi per rispondere a te stessa. Ti muovi con ostinazione, temi di scomparire di nuovo nell’abisso senza ossigeno. Affondare nella dimenticanza significherebbe prestare il fianco alla perdita. La misura di essa è direttamente proporzionale al sentimento nutrito e versato per ciò che ha avuto un senso oppure no. Allora, scatta il peso della dignità e il valore della propria persona per quello che si è raccolto dagli insegnamenti ricevuti da chi ti ha voluto bene e da quelli che hai imparato, sola, sulla tua pelle.

In Gioia mia di Tea Ranno per Mondadori conosci una storia che è fatta di resilienza. In Sicilia, in pizzo ad una collina che guarda l’Etna da una parte e il mare dall’altra, c’è una terra con quattro pietre perse. Il posto era chiamato Terramia. Ora, lì sorge una masseria circondata da uno spicchio di paradiso: terrazzamenti carichi di ulivi, fichi, orti traboccanti di erbe e prati fioriti a perdita d’occhio. La tenuta è il frutto del sudore e della tenacia di Luisa Russo che ha trasformato il tutto in una castidda, perché quella terra è femmina. Femmina è anche l’amicizia tra femmine, tanto che se la Castidda esiste è grazie al successo del ristorante che Luisa ha aperto insieme alle sue amiche e conosciuto in tutta la Sicilia per i piatti deliziosi e l’atmosfera amurusa. Carmine, il marito di Luisa, non sopporta il fatto che sia diventata ricca e stimata da tutti. Lui, non conta niente. È fituso e bastardo. I soldi che guadagna la moglie non saprebbe nemmeno quantificarli, ma gli interessano. Gli speculatori edilizi hanno messo gli occhi sulla masseria. Il più spietato è il presidente di una società poco limpida, che ci vede già un albergo di stralusso e per aggiudicarsela farebbe carte false e pure di più. Alle prepotenze mafiose Luisa Russo resiste per mesi, dopo succede qualcosa. In un attimo casca a terra come una pupa di legno. Mentre è in coma, il marito cerca di vendere la Castidda, intende fare molti soldi. Le amiche della donna, unite dalla sorellanza, si battono con astuzia e audacia per proteggere ciò che è di Luisa. Intanto, lei continua a dormire andando indietro nel tempo e ripesca brandelli di vita che la memoria aveva cancellato. Sino a quando da quel mare di scordanza viene a galla il ricordo rimasto più a fondo, la ferita che brucia di più.

Il romanzo è stupendo. La storia è costruita saldamente. La narrazione è un ben di Dio per scrittura e stile. Le gocce di siciliano impreziosiscono un racconto che mostra la sua autenticità sin dalle prime parole fino a diventare, per il lettore, una gioia per ciò che riesce a trasmettere. La proiezione della vita, in un quadro del genere, può solo essere uno slancio di forza.

Lucia Accoto 

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