Ci sono scrittori che indagano il male, e altri che lo fanno risuonare come una melodia. Thomas Zigal appartiene a questa seconda, rarissima specie. La sua prosa ha il ritmo di un blues dolente, capace di svelare le ferite che attraversano il cuore dell’America.
Con The White League (Readerforblind, 640 pagine, euro 23, traduzione di Nicola Manuppelli), l’autore texano porta finalmente in Italia la sua voce più profonda e necessaria: quella che scava nelle radici marce del potere, raccontando un Sud che continua a vivere nell’ombra della propria storia. Ambientato nella New Orleans degli anni Novanta, The White League è molto più di un noir. È un romanzo di indagine morale e di memoria collettiva, un viaggio nelle contraddizioni di un’America che ancora fatica a fare i conti con il proprio passato.
Zigal trasforma la tensione del thriller in una lente etica, attraverso cui esplora i rapporti di potere, e l’ipocrisia delle élite. La sua è una scrittura lucida e compassionevole che ci descrive New Orleans come un organismo vivo che pulsa tra introspezione e suspense.
Al centro della storia c’è Paul Blanchard, magnate del caffè e discendente di una potente famiglia creola, un uomo che crede di aver costruito un’esistenza solida e rispettabile. Ma il ritorno del suo ex compagno di università, Mark Morvant, lo trascina in una spirale di ricatti e rivelazioni.
Con The White League, Thomas Zigal ci dona un romanzo potente e ambizioso, che unisce il ritmo del thriller all’intensità morale del grande romanzo americano.
Il risultato è un affresco lucido e spietato del Sud contemporaneo: un luogo in cui la distanza tra privilegio e verità è sottile come una nota flebile di una musica lontana.
Zigal non cerca la consolazione, ma la consapevolezza. Scrive con la passione di chi ama il proprio Paese e con la lucidità di chi ne vede le ombre.
In The White League, Thomas Zigal non racconta semplicemente il male: lo fa vibrare come un accordo che non smette di risuonare nel cuore del lettore.
Nancy Citro
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«Cosa vuoi esattamente da me?» chiesi a Morvant, abbassando la voce. La conversazione stava prendendo una brutta piega. Vedevo che Mark stava cominciando a scaldarsi, e l’ultima cosa che volevo era che succedesse proprio a casa mia.
«Mark, sono pronto a fare una bella donazione alla tua campagna, ovviamente nei limiti della legge. Ma nel vecchio giro dei potenti non conto niente… e di questa White League non so proprio nulla. Io penso solo a me stesso e alla mia famiglia». Era la pura verità. «Se stai cercando qualcuno inserito nel sistema, stai parlando con la persona sbagliata. Mi considerano un solitario nei circoli di Uptown, e mi sta bene così».
Morvant non si scompose. Incrociò le braccia sul petto, aggiustandosi la giacca, e mi scrutò con gli occhi socchiusi, come a mettere in dubbio la mia
sincerità. «Mi sottovaluti, Paul. Hai dimenticato che sono uno studioso di storia? Faccio sempre i miei compiti». Cominciò a sollevare e abbassare il tallone del piede destro in un ritmo impaziente. «So tutto della White League. Se un uomo vuole il sostegno politico in questa città, deve andare dalla League con il cappello in mano e chiedere la loro benedizione. Ed è quello che sto facendo qui, Paul. Sto chiedendo la loro benedizione e il loro sostegno finanziario. So che apprezzano già quello che ho fatto per la politica della Louisiana. Sto riequilibrando il potere per i bianchi. Sono il loro candidato ideale. Crediamo negli stessi principi. Ma non posso vincere queste elezioni senza il loro aiuto, e qui entri in gioco tu, amico mio. Sarai il mio intermediario. Rappresenterai i miei interessi nel loro circolo. E quando sarà il momento giusto, mi presenterai ai leader della League faccia a faccia».
Osservai il suo volto stravolto, la fronte corrugata e il mento sporgente, e mi chiesi se stessi assistendo a un momento cruciale della politica americana, l’istante esatto in cui l’infame Mark Morvant aveva perso del tutto la testa. Fin dai tempi del college era sempre stato paranoico fino al midollo, come tutti quei militanti arrabbiati e i teorici della cospirazione antigovernativa del nostro tempo. Mi domandai se le sue ossessioni fossero ormai arrivate al punto di non ritorno, trascinandolo in una spirale senza via d’uscita. Forse i suoi demoni gli avevano sussurrato un segreto di troppo, e la sua mente, alla fine, aveva ceduto.
«Mark, sarò felice di farti un assegno» dissi, ansioso di chiudere la questione e di far uscire quei due dal cancello. «Ma non posso presentarti a un gruppo che non esiste. Non c’è nessuna White League. Stai vivendo nel passato. Quella è storia antica».
Mi ricordai di un vecchio libro nella biblioteca di mio padre. Ne avevo sfogliato le pagine quando ero adolescente, ma non mi era più capitato sottomano da allora. C’era una fotografia del mio bisnonno e di altri austeri confederati con la barba bianca, in posa a una cerimonia di dedica di una targa davanti a un monumento, intorno agli anni Trenta, se la mia memoria era corretta. Erano gli ultimi sopravvissuti alla battaglia della White League su Canal Street. Sessant’anni dopo, eccoli lì, aristocratici di New Orleans che trascinavano con loro la cara bandiera Dixie fino alla tomba.
«Storia antica?». Morvant sorrise con un ghigno sprezzante. Mise una mano nella tasca del gilet. «Allora come mi spieghi questo, cuño?»
Tirò fuori un foglio piegato e me lo porse. A giudicare dalle grinze, doveva essere stato accartocciato e poi raddrizzato, tanto da sembrare la pelle di un vecchio. Quando lo aprii, riconobbi subito la carta intestata esclusiva di mio padre – Dalla scrivania di Charles M. Blanchard – quella che usava solo per le sue lettere personali. Il messaggio era scritto a mano.
Henry, Willie sta guadagnando terreno. Le cose stanno sfuggendo di mano. Dobbiamo riunire la League e discutere cosa fare. Sei disponibile questa settimana?
Con affetto,
Charles
Rimasi sbalordito. Era senza dubbio la grafia singolare e piena di ghirigori di mio padre. «Dove l’hai preso?», chiesi. Il foglio sembrava recuperato dalla spazzatura.
Morvant sembrava entusiasta della mia reazione. Poteva vedere che il biglietto mi turbava, e non riusciva a contenere la gioia. «Ho contatti ovunque» disse, ridendo per la mia confusione. Lanciò uno sguardo a Louis Robb, che mosse la mascella d’acciaio e ricambiò con un sorriso complice. «Posso essere uno Y’at di Arabi, Paul, ma in questi anni ho imparato un paio di cose su come si raccolgono informazioni».
Anche ai tempi spensierati della confraternita, era sempre stato un competitivo nato, testardo fino al midollo. Non voleva altro che avere l’ultima parola, mettere in ridicolo gli avversari e dimostrare a tutti, soprattutto a chi aveva dubitato di lui, che aveva ragione. E adesso aveva la sua rivincita, prove schiaccianti che quella fantomatica League esisteva davvero. Prove che io, però, non sapevo come giustificare. Non avevo la minima idea di cosa stesse parlando mio padre in quel biglietto.
«Willie?» chiesi, confuso.
«Wilhelmina Phillips», disse. «Quella puttana negra del Consiglio comunale. Quella che sta facendo rumore per far chiudere il Mardi Gras».
Wilhelmina Phillips era una consigliera comunale dalla lingua affilata che da anni cercava di far passare un’ordinanza antidiscriminazione per integrare razzialmente le krewe di Carnevale e le organizzazioni del Mardi Gras.
«Non sono l’unico, a quanto pare, a voler vedere finire la sua carriera», disse Morvant.
Studiai il biglietto che avevo tra le mani. Di certo c’era una spiegazione semplice. Mio padre faceva parte della Krewe di Jove e del Magnolia Club, ma non l’avevo mai sentito nominare una League. Forse era solo una delle sue solite battute taglienti? Il defunto Charles M. Blanchard era un uomo riservato, poco incline a chiacchiere inutili o distrazioni frivole. Passava ore e ore nel suo caffè di fiducia su Magazine Street, sei giorni su sette, e fuori dal lavoro e dalla famiglia non aveva grandi passioni o hobby. Poteva essere burbero, severo e inflessibile, ma era anche un padre protettivo, deciso a difendere noi figli e il mondo ovattato in cui vivevamo. Mi chiesi quanti segreti mi avesse tenuto nascosti.