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Un giorno di festa. Intervista a Enrico Pandiani

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A pochi mesi dalla pubblicazione, Un giorno di festa (Rizzoli, pp 306, €18) ha confermato per l’ennesima volta che Enrico Pandiani è una delle penne più autorevoli e potenti del poliziesco italiano di questi ultimi anni. Loabbiamo raggiunto telefonicamente per un breve chiacchierata sulla sua ultima fatica.

Anche se nei suoi romanzi c’è sempre stata una grande attenzione nell’indagare la psicologia dei personaggi, in Un giorno di festa questa componente sembrerebbe aver preso il sopravvento sulla detection e l’azione. Dobbiamo aspettarci un’evoluzione più “cerebrale” in futuro?

No, direi di no. Il lavoro sulla caratterizzazione dei personaggi mi è sempre piaciuto moltissimo, ma non credo che negli anni a venire il mio modo di scrivere cambierà per favorirla rispetto ad altri aspetti. Magari questa maggiore impressione di “cerebralità” si ha perché nel romanzo Mordenti si trova per la prima volta ad avere una specie di famiglia e questo, inevitabilmente, mi ha spinto a concedere maggiore spazio all’introspezione.

Come riesce a bilanciare la narrazione autodiegetica tipica della serie con la resa sempre e comunque molto puntuale degli altri componenti storici dei Les Italiens?

Innanzitutto sono molto legato a questi personaggi, e anche ad altri personaggi minori che magari non compaiono in ogni libro, ma che comunque ho sempre ben presenti. Servandoni, Leila e Coccioni sono importantissimi per me fin da quando definisco il plot, anche se mi capita non di rado di fargli fare (come d’altronde avviene anche per Mordenti) delle cose che, quando avevo concepito la storia, non erano preventivate. Di certo riesco a lavorarci su con maggior facilità rispetto alla protagonista della mia altra serie, Zara Bosvades, che, essendo una donna, richiede un transfert emotivo molto più impegnativo.

Quando ha debuttato nel 2009, in Italia stava esplodendo la tendenza al giallo e al nero “regionale”. Lei perché ha scelto Parigi?

Quando ho scritto il primo libro, già alla fine della prima scena, che si svolge a Torino, mi sono reso conto che avevo bisogno di un’ambientazione diversa, dove ci fosse una presenza più significativa dei poteri forti. Parigi mi è sembrata perfetta. Poi c’è ovviamente anche un aspetto in qualche modo sentimentale: mi piace moltissimo andarci, fin da ragazzo, visto che avevo anche uno zio che viveva lì. Sì, avrei desiderato tanto vivere nella capitale francese!

Come riesce, da italiano, a descriverla in modo così lenticolare?

Quando sono da quelle parti, cammino moltissimo e mi trovo spesso a curiosare in posti che magari non ho mai visto prima. E subito comincio a “registrarli” dentro di me, ad ambientarci delle scene che poi riannodo all’idea generale del libro che ho in mente. Inoltre, ho anche tanti amici che mi portano in giro facendomi scoprire degli angoli della città che, magari, non sono granché battuti dal classico turista, ma che invece risultano narrativamente molto funzionali a quello che cerco. In ogni caso, la mia Parigi è anche e soprattutto un’invenzione, un posto che vedo solo io. In un mondo globalizzato come il nostro, dove tutte le città di tutti i continenti sono ormai uguali, solo una forte propensione alla fantasia e all’immaginazione può consentire ad uno scrittore di noir di crearne una ideale. In ogni caso, non vorrei mai e poi mai che la mia Parigi diventasse una specie di “guida turistica” come è successo, invece, per le città di tanti autori.

La conclusione del libro sembra un riuscitissimo montaggio cinematografico, mentre la scena d’apertura ha un’urgenza più tipicamente letteraria (che fa pensare a Manchette): la scrittura di Enrico Pandiani, in futuro, cercherà di mantenersi su questo equilibrio o virerà da una o dall’altra parte?

Per l’incipit, ho deciso di variare rispetto ai primi episodi nei quali Mordenti compariva subito sul luogo del delitto. Questo mi ha portato a scrivere in un modo forse più letterario e sicuramente con una “patina” psicologica più marcata. Il risultato non mi è dispiaciuto affatto e ha stupito e convinto molti dei miei lettori, tra i quali anche mio padre, che di solito non è mai particolarmente tenero nei giudizi sui libri, miei compresi (ride, ndr).  Per quanto riguarda il finale, anche se non mi piace molto la parola “cinematografico” accostata a un romanzo, credo di aver sempre avuto un buon talento nel far vedere le cose attraverso le descrizioni. D’altronde, per tutto ciò che è stato fatto fino al 1980, posso considerarmi un autentico cinefilo e la serie degli Italiens è piena di riferimenti alla settima arte. Per esempio, metto due volte in bocca a Mordenti la battuta “okay per te”, che viene dritta dritta dal Lungo addio di Robert Altman; come pure il fatto che Servandoni accenda le sue sigarette sfregandole su tutte le superfici più improbabili. Amo un certo tipo di cinema, quello alla Bullit, per capirci, nel quale la tensione che inchioda davanti allo schermo non è il frutto di un’azione esagerata o di continue sparatorie, ma viene creata con un lavoro certosino di gradazione e con un pizzico di sapiente ironia. Poi, ritengo sia anche molto importante documentarsi su come funzionano certe cose, prima di scriverle: per la scena che apre il primo romanzo della serie degli Italiens, per esempio, ho parlato con molti testimoni (e qualche sopravvissuto) di sparatorie. È per questo motivo che risulta tanto credibile. Una volta, ritirando un premio, il magistrato che presiedeva la giuria, mi disse che le mie descrizione delle sparatorie erano la migliori che avesse mai letto. Ecco, bisogna sforzarsi di arrivare a questo risultato.

Sempre a proposito di cinema: le piacerebbe un giorno scrivere una sceneggiatura?

Sì, perché no? Anche non tratta dai miei libri. Certo, bisognerebbe vedere se ne sarei capace, ma posso ragionevolmente sperare di sì. Soprattutto perché amo scrivere i dialoghi, che in un film sono quasi sempre l’elemento fondamentale.

La sua precedente, lunga esperienza nel mondo dei fumetti le è stata d’aiuto quando è passato alla narrativa di genere o va considerata in termini di assoluta non relazione?

Sì, moltissimo, il fumetto è una grande palestra narrativa. Innanzitutto ti spinge alla sintesi, sia quando disegni che quando devi scrivere i testi. Poi è efficace quando ti trovi a dover scansionare l’azione: in un poliziesco o in un noir, il pericolo più grande è quello di non saper gestire i momenti privi di azione o di sparatorie. Si rischia di appesantire il flusso della lettura, mentre invece nei fumetti tutto scorre più rapidamente. Oggi, tra l’altro, sono caratterizzati da un ricorso maggiore alla parola rispetto al passato e questo favorisce molto chi poi passa alla narrativa come è successo a me. Poi, ça va sans dire, c’è la questione dei dialoghi, che come nel cinema, sono anche lì fondamentali.

Le è mai venuto in mente di far incontrare in un romanzo Mordenti con Zara Bosvades? Pensa che si troverebbero bene a lavorare insieme? E potrebbe, magari, scapparci anche un flirt?

Chissà, in futuro… Sì, credo che si troverebbero bene a lavorare insieme, anche se potrebbe esserci qualche problema ogni tanto per il fatto che sono entrambi “prime donne”. Questo immagino creerebbe qualche barriera anche per un eventuale flirt.

Voci ben informate dicono che a breve vedremo Les italiens sul piccolo schermo. Può dirci qualcosa? E, sempre a proposito di televisione, quali orizzonti narrativi crede abbiano aperto le serie televisive (se pensa che ne abbiano aperti, ovviamente)?

La IIF di Fulvio Luccisano e la Space Rocket Nation di Nicolas Winding Refn stanno lavorando ad una coproduzione per una serie tv, che potrebbe uscire -non sono sicuro dei tempi- per la fine del 2018 o per l’inizio del 2019. Sulle serie tv più in generale, che dire? Non vedo molto quelle che vanno per la maggiore oggi, mentre ero innamorato della prima stagione di Law and Order, ad esempio. Più che aprire nuovi orizzonti narrativi, credo che abbiano introdotto un nuovo modo di fare cinema, uccidendo quello tradizionale che, tra l’altro, non sta più trattando certi tipi di storie. Ed è un gran peccato.

Che cosa legge Enrico Pandiani? E che cosa ha letto prima di approdare nel poliziesco come autore?

Da tempo, ormai, leggo cose lontane da quelle che scrivo io. Non è snobismo, sia chiaro, ma mi risulta molto difficile trovare narrativa di genere fatta come piace a me. Diciamo che dopo aver divorato i “classici” gialli e noir, ho preferito passare oltre, con qualche eccezione, come ad esempio Giampaolo Simi. Sul mio comodino, ultimamente, sono passati A ciascuno il suo, un libro che ti fa fare, letteralmente, un balzo quando lo hai finito; un saggio sulla rivoluzione francese di Jonathan Israel; il bellissimo La guerra dei Murazzi del mio concittadino Enrico Remmert; e poi Cercas, Marías, Starnone e Fois. Non mi sono per niente annoiato, insomma!

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