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Una Mannion anteprima. I ragazzi della Blue Route

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Una Mannion esordisce in Italia con I Ragazzi della Blue Route grazie ad Astoria Edizioni (casa editrice molto attenta alla letteratura femminile e a quegli autori e quelle autrici “neglected”, ovvero posti nel dimenticatoio).

Un romanzo “tipicamente” americano connotato da una storia di (de)formazione, di infanzie distrutte e adolescenze interrotte, forzando così il passaggio alla vita adulta. La storia è grottesca e venata da ossessioni corroborate da esperienze post-traumatiche, infatti la vicenda segue le peripezie di Ellen, la figlia dodicenne di Faye, che viene abbandonata dalla madre durante un viaggio in auto e sarà costretta ad affrontare l’ignoto e gli sconosciuti per più di dieci chilometri, incontrando figure che la segneranno a vita. L’America degli anni 80 diventa il triste scenario in cui ambientare le storie di famiglie disfunzionali, relazioni tossiche e percorsi di crescita che deragliano in abissi disastrosi. I Ragazzi della Blue Route è un esordio non indulgente, denso e stratificato in cui i generi più cupi si mescolano con la dolcezza della nostalgia e l’incanto della malinconia, in un tripudio di echi assordanti e meravigliosi.

Cristiano Saccoccia

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La notte in cui lasciammo Ellen per strada stavamo andando verso nord sulla 252 vicino a dove interseca la 202 e poi attraversa il Pennsylvania Turnpike, l’autostrada a pedaggio. A ovest c’erano campi aperti, praterie di erba dorata ed erba bambagia, l’ultimo barlume di sole che le illuminava di frammenti di luce. A est, il centro commerciale King of Prussia – grigie zone indu – striali scolpite nella polvere, betoniere, gru e un labirinto di au – tostrade. La Blue Route era anch’essa da qualche parte in quella zona, come un arto amputato, iniziata nel 1967 ma non ancora finita quattordici anni dopo, l’asfalto che terminava contro una fila di altissime erbacce e alberi, là dove erano finiti i soldi. Gli adolescenti la usavano per imparare a guidare o ci facevano delle feste a notte fonda. La strada per il niente, la chiamavamo. Era – vamo in macchina. Le automobili accesero i fari e davanti a noi le colline di Valley Forge si erano trasformate in ombre, gli alberi già figure scure. In macchina c’eravamo noi sei, Marie davanti sul sedile del passeggero, Ellen tra me e Thomas dietro, e Beatrice stesa “nel dietro più didietro” con tutti i nostri zaini della scuola e le cartel – line di tutto l’anno sparpagliate intorno a lei.

Era l’ultimo giorno di scuola, e avevamo cominciato ufficialmente le vacanze estive. Guidava mia madre. Come una pazza. Frenava, accelerava, dava troppo gas in prima per poi cambiare marcia. Era arrabbiata. Lo avvertivo dagli scossoni della macchina che davano la nausea, e dalla sua mascella, che intravedevo dal sedile posteriore: si muoveva e si contraeva sotto la pelle, perfino quando non parlava. Lei ed Ellen avevano discusso; Ellen la tormentava perché le lasciasse frequentare un corso di arte quell’estate. “Ti ho detto di no. Basta.” Lo definiva ricatto promozionale quando mandavano a casa dei dépliant dentro gli zaini, e la faceva infuriare. “Ho già abbastanza cose da gestire così.” L’estate in arrivo mi terrorizzava. Premetti la fronte contro il finestrino e guardai verso l’ultimo filo di luce. Sage stava di sicuro lavorando al centro commerciale, come cameriera alla tavola calda di J.C. Penney.

Per l’estate le avevano offerto di lavorare a tempo pieno. Avevo passato quasi tutte le mie estati con lei. Avevo pensato di falsificare la firma di mia madre per ottenere i documenti necessari a trovare un impiego. A quindici anni avevo il permesso ufficiale di lavorare, ma sapevo che non me l’avrebbe concesso, che a mia madre servivo per badare ai più piccoli quando lei era in ospedale. Di lavoro faceva la receptionist nell’accettazione del pronto soccorso al Paoli Memorial. Sage diceva che ero fortunata. Lei si lamentava delle altre cameriere con le calze compressive e le scarpe ortopediche, che versavano caffè al banco per altri vecchi decrepiti che al mattino spruzzavano tester di profumo sulle loro uova accompagnate da pane tostato. Io però le invidiavo il suo lavoro vero con clienti abituali e le mance e la gente che non gliela lasciava e le storie che raccontava. Una cliente sopra i novanta beveva la panna per il caffè dal bricco di porcellana bianca che veniva sistemato sul banco ogni mattina, lasciandovi un’impronta bavosa di rossetto arancione fosforescente. Non era una questione di denaro o di lavoro – facevo la baby-sitter tutti i venerdì sera per i Boucher. Avevo paura di tutti i giorni da passare sola che mi aspettavano. Thomas, dall’altro lato di Ellen, stava recitando la tavola periodica a bassa voce. “Ci sono l’olmio, l’afnio, l’erbio…” “Piantala,” disse Ellen. “… il fosforo, il fluoro, il terbio.” “Chiudi quella boccaccia. Piantala, ti dico!” Ellen si posò la testa sulle ginocchia e si abbracciò le gambe. Piangeva. Un dolore pulsante che mi era partito dal collo mi era passato per il cranio e mi si era fermato sulla fronte. Volevo che stessero zitti tutti e due. “Stai rompendo le scatole a tutti, Thomas. Smettila,” dissi. “Lo sapevi che le lacrime contengono glucosio, sodio e potassio?” “Chiudi quella boccaccia, mostriciattolo fanatico di scienza.” Ellen gli sparò due colpi di calcagno negli stinchi, spingendo il sedile del guidatore al quale si era aggrappata per sostenersi. “Smettila subito. Ci vuoi far schiantare da qualche parte?” Mia madre era imbufalita. “Le lacrime contengono un analgesico naturale, l’encefalina,” sussurrò Thomas. “Dopo ti sentirai meglio.” “Fallo smettere.” Ellen aveva la voce soffocata.

Il suo lamento e i mormorii di Thomas mi fecero venire voglia di prendere a pugni lui o qualcun altro. Ellen aveva appoggiato di nuovo la testa sulle ginocchia. Mi sporsi sopra di lei e diedi a Thomas una gran spinta con le nocche. “Sta’ zitto, Thomas. Che ne sai tu di lacrime?” Lo dissi e me ne pentii perché aveva qualcosa che non andava, il fatto che non piangesse dopo tutto quello che ci era successo, il modo in cui era semplicemente scomparso dentro se stesso e nella sua stanza. In quel momento, mentre prendeva in giro Ellen, assomigliava di più al Thomas di prima. Si girò verso il finestrino e non disse niente. Sarebbe stato meglio se si fosse arrabbiato. Cercai di cancellare il mio gesto con una vecchia battuta. “Ehi, Thomas, se prendi a calci un ritardato cosa sei?” Si volse per guardarmi, in attesa. “Beh?” “Uno stronzio.” “Molto divertente, Libby, ma non sai nemmeno cos’è lo stronzio. Hai appena ammesso che sono come una supernova, nemmeno di questa terra.”

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