È in libreria dal 3 ottobre In equilibrio sulla linea azzurra, di Valter Manunza (Arkadia editore 2025, pp. 172, € 16).
Il romanzo allude con precisione alla lunghezza della maratona, ma subito la trasforma in una metafora di un percorso esistenziale: la vita come fatica, resistenza, preparazione, soglia da superare. La distanza precisa rappresenta una misura oggettiva, ma si carica di significato simbolico e soggettivo.
Il testo si articola in sequenze episodiche numerate a ritroso, suggerendo un conto alla rovescia, una preparazione non solo alla corsa, ma a un evento interiore, forse iniziatico. Questa struttura crea una tensione narrativa e riflette lo stato mentale del protagonista: ansia, attesa, memoria. Ogni segmento scava più in profondità nella mente e nel passato del protagonista, in un moto centrifugo che dalla maratona lo riporta verso l’origine. Lo stile è lirico e soggettivo, spesso ellittico, con frasi sospese che imitano il respiro del pensiero o l’affanno della corsa. La prosa è densa di immagini evocative, oscillante tra il presente dell’esperienza fisica e il passato memoriale o onirico. Numerosi sono i passaggi che riportano alla luce l’infanzia: la voce dei genitori dietro la porta, i ricordi dell’isola, la figura dell’accabadora. Il passato riaffiora mentre il corpo si prepara alla sfida presente. È un dialogo interiore tra il bambino che ascoltava nel buio e l’uomo che oggi si guarda allo specchio. Il protagonista si interroga su sé stesso (“Chi sei? Ora.”). Il suo nome — Damiano Fortuna — emerge in un silenzio “troppo denso” e diventa punto di rottura tra identità sociale e identità interiore. La costruzione del sé avviene nel movimento, nella corsa, nella sfida ai propri limiti. Le soglie che punteggiano il testo — la porta della stanza, l’ascensore, la metropolitana, il ferry, l’ingresso al ponte — segnano passaggi simbolici. Sono spazi di transizione, momenti di mutamento, attraversamenti fisici e spirituali.
Il ricordo dell’accabadora, figura mitica della Sardegna, introduce il tema della convivenza tra vita e morte, tra fine e inizio. Come la corsa, anche l’accabadora incarna un momento di passaggio. Il mito si intreccia con l’esperienza del presente, caricato di tensioni esistenziali. La narrazione fonde il presente della maratona con il passato dell’infanzia, il mito, la maturità, le relazioni. Il racconto segue un flusso di coscienza che somiglia a una corsa mentale, un allenamento della memoria. La maratona diventa una stratificazione psichica: correre è un modo per accedere a sé stessi, per curare ferite, per attraversare il dolore e superarlo. La scrittura si muove con il corpo del protagonista: ogni gesto, sensazione, respiro è descritto con precisione. Il corpo diventa archivio della memoria e mezzo per attraversare la realtà. Centrale è anche la tensione tra individualità e collettività. Il protagonista è solo, ma immerso in una massa. La maratona è esperienza profondamente personale e insieme rito collettivo. È nella condivisione dell’attesa e della fatica che nasce una complicità profonda.
Questo romanzo è più che un racconto sportivo: è una meditazione esistenziale sul tempo, la memoria, l’identità, la morte e la rinascita. La narrazione scorre densa, sensoriale, ricca di immagini simboliche. Ogni episodio costruisce un mosaico in cui il corpo e la psiche si fondono. Damiano, correndo, attraversa un paesaggio mentale che va dalla stanza buia dell’infanzia fino all’orizzonte del ponte di Verrazzano. Ogni passo è un modo per riconnettersi con la propria storia, per fare i conti con sé stesso. La corsa si rivela un rituale di passaggio, una prova iniziatica, un moderno viaggio dell’eroe. Il corpo è lo strumento, la mente è il campo di battaglia, il cuore il luogo della perdita e della speranza. L’identità si costruisce nel dialogo fra ciò che si era, ciò che si è e ciò che si sceglie di diventare. Il segmento dedicato all’“andatura costante” è emblematico: correre non per superare, ma per regolare il passo, trovare un equilibrio. È una forma di meditazione in movimento. Toccante l’immagine del ragazzo cieco con la guida: “Ho l’impressione che il ragazzo senta gli sguardi e accarezzi i colori, che annusi l’aria con la pelle.” In questa frase si compie un rovesciamento poetico: la cecità diventa percezione più profonda. Damiano, pur vedente, rincorre quella stessa intensità del sentire. La corsa diventa, per lui come per tutti, un viaggio sensoriale, emotivo, umano.
Il testo analizzato si rivela un’opera densissima, dove la maratona è solo il pretesto narrativo per un’esplorazione interiore profonda e stratificata. Attraverso una prosa lirica e simbolica, il romanzo mette in scena il cammino di un uomo che corre per ritrovare sé stesso. Ogni soglia attraversata, ogni ricordo evocato, ogni gesto corporeo diventa parte di un rito di passaggio in cui il protagonista affronta i fantasmi del passato, la propria identità frammentata e il desiderio di rinascita. Il corpo è il veicolo attraverso cui si accede alla memoria, alla coscienza, al senso stesso dell’esistenza. La corsa, nella sua fisicità estrema, diventa via spirituale, esercizio di consapevolezza, atto catartico. Damiano Fortuna corre per vivere, per capire, per guarire. E insieme a lui, corre ogni lettore che riconosce nella fatica, nella resistenza e nella fragilità, la verità profonda del vivere.
Francesca Mezzadri
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Speravo ogni mattina che fosse uno di quei giorni, col corpo pieno di cuore, per vederla e rimanere appeso alla parola giusta da dire che mi veniva in mente sempre quando oramai era tardi. Mi voltavo per non incrociarne lo sguardo mentre mi passava accanto come in una foto mossa. Quando succedeva che si avvicinava al bus era come prendere aria dopo essere stati immersi a lungo. Contavo allora il tempo in secondi, perché si allungasse.
Scendendo alla sua stessa fermata percorrevo a piedi, dietro di lei, la strada che io, tutti gli altri giorni non facevo. Mantenevo la distanza osservando il suo passo svelto. La guardavo salutare, a volte fermarsi un attimo a parlare. Dopo la piazza del teatro lei andava a sinistra per il liceo, Classico. Io andavo dritto, ancora un bel po’ , per percorrere a piedi lo spazio delle fermate ancora da fare. Arrivavo a scuola correndo, sudato e in ritardo.
Una mattina, dall’ultima volta era passato un bel po’ , me ne stavo seduto, distratto dalla pioggia che rendeva tutto una macchia di colore indefinita. Me la sono ritrovata davanti, in piedi. Come se fosse piovuta dal cielo, senza una goccia d’acqua sull’impermeabile blu, o che macchiasse le scarpe. Dall’ombrello poggiato, bellissimo a quadri neri e bordeaux e con il manico di osso che sembrava madreperla, un rigagnolo seguiva la pendenza. Mi ha sfiorato con un sorriso di saluto.
«Prego», le ho detto alzandomi.
«Grazie, sei molto gentile», mi ha risposto accennando a un minimo di attesa prima di sedersi.
«In realtà non scendo tra molto», ha aggiunto.
Ho sentito il bisogno di dirle che ero appena salito e lei mi ha detto:
«Sono Serena.»
«Piacere Damiano.»
L’ombrello scivolando sul rigagnolo è caduto. Nell’istante in cui lo raccolgo mi vedo riflesso nel vetro con quello in mano. Mi sono visto, inadatto, nel mio giaccone sformato sopra il maglione sdrucito e ho guardato lei, imbarazzato, mentre mi ringraziava. Mi sono guardato le scarpe sporche, con una stringa rotta annodata. Mi vergognavo ora di incrociare i suoi occhi. Volevo solo scappare da lì. Alla fermata in cui lei è scesa mi ha salutato e io ho proseguito. Non sono andato a scuola quella mattina. Sono andato sul lungomare a cercare un angolo, e mi sono seduto su una panchina bagnata a riempire gli occhi di rabbia fino all’orlo.