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VERONICA TOMASSINI INEDITA. FOREVER – CAPITOLO 12

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In Rue du Chateau

Un giorno, quando non ero più la ragazza che guardava dalle gratelle il cortile della scuola del piccolo Bronx, mentre nubi di polvere aspra bruciavano sguardi purpurei, nell’insolenza o nella certezza che ogni dettaglio del mondo sarebbe restato immobile nelle stagioni a venire – uguale e nostro, per sempre – ecco, mentre succedeva, si capovolgevano anni dentro anni.

E un giorno, dico un giorno, sono io, seduta in un caffè, sono nell’arrondissement di un romanzo americano di debosciati a Parigi. Il boulevard Raspail, il caffè altrimenti detto in rue du Chateau.

Parigi, declinata nella poca luce, tutto sommato sono io e sono ancora una ragazza. Seduta in un caffè nella rue du Chateau. Avevo dimenticato la miseria del cortile di una scuola, gli affaracci smerciati nel piccolo Bronx, le cartine infilate nel pacco di sigarette, le sigarette spezzate per il tabacco da rollare. Avevo dimenticato.

Il tossico che sputava bava densa, la roba che circolava nei gironi psichedelici del flash, davanti al mio modico aspettare il giorno, fino alla fine, seduta sotto l’arco di una piazza sgangherata, sopra cui svettavano cime di palazzi arcigni come kapò, o sentinelle nella mestizia, mai a restituire consolazioni in epifanie impossibili: un cherubino avvolto dalla fiamma ardente, sulla vetta dell’abbaino. Un liuto dentro il pentagramma di assordanti verità che concluderemmo altrove o piuttosto molto molto moltissimo tempo dopo

Finanche dopo il timer che sposta ogni sussulto della ragazza seduta nel caffè della rue du Chateau.

Sono io.

La ragazza ha messo all’asta la sua verginità, ovvero pensieri purpurei, ma quelli sfuggivano oltre le gratelle, nella scuola del piccolo Bronx. La ragazza ha poi incontrato di nuovo l’uomo della Mercedes nera. Ogni sera, più o meno ogni sera, la conduceva nell’oscurità di un piacere violento, consumato dentro la smorfia che era il segno della colpa. Una colpa compartecipata. Quindi scendeva dall’automobile, lussuosa per allora. Sistemava le calze, sistemava l’orlo del vestito crudele che indossava, stiracchiandolo verso l’incavo delle gambe, lasciate scoperte, lamine di luci dipartivano da lei, moniti da intercettare, soltanto che lei era una ragazza distratta.

In rue du Chateau. Era molto signorile e discreta, una via per donne dal profilo aristocratico.

Mademoiselle. E invece sono greca. Mi dicono così, mi lanciano parole come da fonografi, al quartiere latino. Mi chiamano la greca. Non sono una ragazza che guardava nel cortile le nubi polverose salire verso il cielo, verso la vaghezza del cielo nel rione del piccolo Bronx.

Una vaghezza pesante, eppur densa di privazione.

La mia privazione mi insegue negli anni. Gli anni piombano dentro anni, con perduranza. Perdurano nel fluire i medesimi gangli: avvenimenti che sottraggono.

L’amore per esempio. L’amore mi brucia nel petto. È una fiamma ardente, ma non incendia nobiltà.

In rue du Chateau la vita mi si schiudeva dinanzi, una corolla, stavolta i petali non esplodevano, si schiudevano in colori pregni simili a gemiti. Mi sembrava una nuova vita. Nell’arco parabolico. Da quel lungomare in avanti, Monica con le mani giunte al petto.

Vidi il cielo arrampicarsi dentro spettri violacei. La luce si inchiodava in generose misture, salsedine, torpore, pallore umido, nelle trifore dei palazzi. La povertà confondeva il margine, la vecchiezza di un paramento, la brutalità di un arazzo lanciato al vento, appeso ai fili di un balcone pencolante. Il sentore di quell’uomo, la sua smorfia, brillava di turpitudine, detonando nella mia testa, rimpallo da tempia a tempia. Il fumo acre del pakistano. Ottimo fumo pakistano.

Monica si desta. Si tira su.

Satin e abbandono. È quel che mi ricordo di lei. Le altre erano fiori scoperchiati alla vita, senza riguardo. Monica accese la sigaretta e mi chiese alcuni spiccioli per chiamare casa.

“Mia madre è con il cornuto” dice.

Monica aveva il suo.

Fuma, guardando nella medesima direzione, entrambe forgiate dal labirinto illuminato, violaceo, lungo la linea, entro la fine del mare, al di là del quale cosa c’era? C’era la solita vela che affiorava e che non portava altro che l’attesa avvinghiata a sé stessa, l’attesa nel solo perno? Sé stessa.

Monica sembra ostile, ha dimenticato contro cosa. Lo è sempre, lo è di solito. Anche verso il cornuto, l’amico della madre.

“E il mio?”. Rifletteva, smunta, nella perdizione, nell’invocazione che aveva smarrito il preludio lavato nella castità.

Il suo accompagnatore, un pappa. Un pappa! Le urlavamo, quando ubriache non avevamo remore, l’un con l’altra, a odiarci, come sanno odiarsi solo le ragazze.

Monica tirava su il mento, fiera e perduta.

Era bellissima. Saliva in macchina con il vecchio, voltandosi all’ultimo, a guardarci, cattiva, perché noi eravamo ancora lì, ferme dentro un sentiero migliore che divaricava dal suo.

E noi guardavamo lei, il piccolo branco, o il modico gregge. Infilate in vestitini crudeli. Aprile.

Ed era già aprile.

Così in rue du Chateau, molti anni dopo, non ero più la ragazza del lungomare, con Monica dormiente, le mani giunte, e le altre, corolle conformi nell’unica luce gloriosa.

In rue du Chateau non ero adulta, non avevo smesso di aspettare. E pur tuttavia nulla sarebbe accaduto veramente. Nulla di migliore. Un inganno sgranato semmai, mi avrebbe colto, di tanto in tanto.

Ma sarei tornata. La sventura ordiva perché tornassi. Un giorno riconvertirò la sventura, in quale lemma appropriato non posso ancora dire.

Tornavo nell’inganno sgranato, e non ero più una ragazza. E avevo lasciato le altre, non so di preciso dove. Lasciate, di punto in bianco. Un giorno, di molti anni dopo, dopo rue du Chateau.

Avevo un neonato sulle braccia, un giorno. Era mio.

Incontrai il mio amore. Il mio amore conficcato dalle spade. L’eroina.

Ancora lei.

Lo incontrai. Ed erano anni infiniti conficcati in altre spade.

La mia spada aveva l’unico assedio da combattere. L’assedio era vuoto.

Lui era bianco come Rupert Everett.

Mi disse: sei bella.

Il giorno avanza, fino al crepuscolo. Senz’altro raggiungerà la nuova alba. Per lungo ancora, raggiungerà la nuova alba. Chiedo.

Le ragazze però preferivano la notte, per tornare all’aurora, anch’esse.

Dove le ho lasciate, non ricordo.

E tuttavia, preferivano la notte.

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini

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