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VERONICA TOMASSINI INEDITA. FOREVER – CAPITOLO 14

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Due destini sulla Senna. Il colore del rimpianto.

La stanza delle ragazze è puntellata da granuli di luce. Piccoli barbagli, il sole di aprile poggia sul mondo, come l’atlante sulle vestigia di ogni desiderio di libertà. Le ragazze sono anarchiche, è il talento delle ragazze, l’anarchia è una forma di resistenza, una come un’altra.

L’anarchia senza vessilli, non il manifesto bakuniniano. No.

I barbagli splendevano sopra il mio capo. Sedevo alla finestra. Accovacciata, fragile e arrabbiata. La rabbia cieca che non si esaurisce, abita lo spirito affranto, ma si è troppo giovani per governarlo, non sai mai dare il nome.

E tutto chiami tristezza. O amore. Non disponi in ordine le parole. Preferisci ammettere stoltamente che siano poche, brevi, non incisive, non all’altezza. E tutto chiami amore o il suo contrario.

Le mie erano adulte, precoci, avanzavano prima dei fatti, per cui mi sorreggeva lo sbalordimento, a leggere i fatti arrivavo prima. Non procura felicità l’insolito primato.

Monica aveva la stanza tappezzata di seta rosa. Tappezzeria d’alto bordo. Non è esatto, alto bordo, come una prostituta, la madre, una squillo. Come si chiamavano allora. Devi far bere i clienti, pare. Te ne porti uno a casa, lavori in autonomia.

Avevo un’ambizione. Diventare una entraineuse. Come Monica, la madre, come la tendenza che il capitalismo liberava, selvaggiamente.

Fare bere i clienti, una banconota da cento sul palmo, prima l’onere. No, il tariffario, come accidenti volete, una marchetta. Una banconota da cento.

E sistemavo bene la gonna sui fianchi ossuti. Le gambe lunghe e magre come quelle di uno stambecco. Gli occhi da truccare con attenzione, il vero asso nella manica, socchiudere le palpebre talvolta e un vecchio maiale è pronto lì, con le brache calate.

Prima la marchetta, poi i sogni, la libertà. Divagazioni sulla panchina del porto o stese sul lungomare e torniamo ragazze, splendide e pulite, dentro e fuori, il tossico che si è fatto la rota senza colpo ferire. Ma poi torna a farsi, una spada, e ci resta secco.

Piano piano ho sistemato le stagioni della mia vita nell’angolo mediocre che meritavano. Ne tiro fuori qualcuna, all’occorrenza. Ad esempio il giorno che a Parigi incontrai un uomo di nome Timò.

Era il destino che mi scivolava via, come sempre. Feci un giro per il Bois. Ed ero in un romanzo americano.

Di quella letteratura americana che piaceva tanto a mio padre. Henry Miller, Bellow, Hunter.

Li ho letti, prestissimo, prestissimo conoscevo la vita che non avrebbe mai ricambiato la cortesia.

Timò si presentò, sotto l’ombra dell’ippocastano. Poi lo rincontrai a Montmartre, lungo i sentieri degli artisti, tra i cavalletti e i carboncini, Timò mi dedicò il suo sguardo, il rammarico, la nostalgia anzitempo.

Anzitempo: la mia edicola votiva. Anzitempo.

O dopo, o postumo. O troppo tardi.

Au revoir. Timò.

Perseguitata dal destino, pensai, mentre andavo via. Con l’ultimo per sempre tra le labbra, bruciavano nella contrizione e nell’impossibilità.

Au revoir. Con gloria, Timò.

Scesi i gradini molteplici, separavano il resto dalla dipartita, ordinati, uno sotto l’altro, era facile, uno sotto l’altro; scesi i gradini contandoli, duecentocinquanta, contandoli ancora, duecentocinquanta. E nel sogno, a lungo, contai i gradini che conducevano al rimpianto nel suo primate, risveglio improvviso, già defunto, Timò Timò. Duecentocinquanta. Duecentocinquanta. Duecentocinquanta.

Ogni rango. Mi separavano dal primate.

Il primate era l’amore, o chi per lui.

Parigi mi impressionava nella luce da sala da tè. Penombre di decadenza, profumo di tigli lungo il boulevard, uno tra i tanti. Uno sulla Senna.

Vedo una chiatta. Timò è alle mie spalle. Mite. Tace. Guardiamo le acque della Senna mormorare verso una foce invisibile. Guizzi dorati ci sembrano rimpallare da una riva all’altra. La gauche. Ecco la chiatta. La vediamo entrambi. Sento lo sguardo di Timò, poggiamo entrambi i nostri occhi nel lontano vermiglio fragore, il cielo, Parigi, il tramonto, la chiatta. Vermiglio.

Vermiglio è il colore che posso consegnare a un rimpianto.

Lasciate che sia così. Ha una sua ragione. Precisa, esclusiva.

Rosseggiava l’ultimo cielo di Parigi. Sapete? Avevo pochi anni. Cioè gli anni di una ragazza e avevo già rinunciato, in sequenza, a due destini.

Tornai la ragazza priva di sussulto. L’incarnato pallido aveva dimenticato il vermiglio di quel cielo, consumando tutti i sogni, contando ogni rango, e ogni rango era una contrazione del ventre, una mano sul costato. Poggiarla. Sentire svanire, scivolare, un destino, due destini.

Era finita. Finita: è la chiusa che una scrittrice sa, immagina. Straziante, taumaturgica.

Finita. Tornai ed ero la solita meschina adescatrice, per un ingresso pagato, un Martini, un pacchetto di Marlboro. Meschina. Eppure a Parigi io e Timò. E c’era la Senna. Un uomo, si chiamava Van Norden, era pazzo, era un personaggio letterario di Henry Miller, voleva una donna che non fosse solo una fica, ma un cervello, così che non morisse, che ne sentisse il bisogno, la precisione della fedeltà. Roba da perderci la ragione, i pensieri. E non resta altro. Sì che poi resta altro, da adulta la chiamo pietà o carità. No no. La chiamo, ma non dirò l’impronunciabile.

Anzi.

È imperdonabile adesso l’accesso ad alcune verità.

Soltanto basta ricordare. E non sapere chi fossi. Lo stesso.

La ragazza era bellissima. La ragazza che saliva i gradini di Montmartre. Salire le era confacente, nella strana ebbrezza. Chiamava tutto con un sol nome. Amore.

O il suo contrario.

(continua)

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