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VERONICA TOMASSINI INEDITA. FOREVER – CAPITOLO 16

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Così diseducata, l’amavo

Perché sei tornata?

Le ragazze guardavano nell’identica direzione, alle mie spalle. Oltre me. Io guardavo il maniero, sopra una cunetta, verso il ventaglio che si apriva sulle navi petroliere lungo la linea, solcante il blu persiano.

Le ragazze domandavano curiose: Timò, è bello? E allora perché sei tornata?

Sentivo la domanda risuonare, risuonare precisa come precisa è la parola del poeta, quando cerca di sotterrare la vita in un linguaggio oscuro, che non edifica, non consola.

Il poeta non cerca la verità, la sotterra. Non conoscevo poeti. Leggevo scrittori maledetti.

Leggevo Splenger. Oggi è profetico. Forse allora era maledetto nella didascalica veemenza in cui riparava le sue certezze, il viatico della congiunzione vacillante di sentimento e avvenire, ma questo lo dico io.

Il pensiero di Splenger era una oscenità, era impronunciabile. Ero soltanto una ragazza. Ed ero appena tornata da Parigi.

Timò mi baciò, sul ponte, sotto cui un canale di acqua virulenta trascinava schegge di esistenze, consumate in una esosità di vetro; una storia trascinata, similmente alla piena che rovina febbrilmente alla foce, era una specie di parafrasi altisonante, mi ricordava il salice dal fusto eroso, come da un pianto rimandato, un logorio emotivo rintronato dal dinamismo delle foglie. Ratti enormi scappavano da un lato all’altro del ponte o affioravano dalle acque del canale, in lontananza si intuiva il sussurro monocorde della Marna.

Sono tornata perché le cose devono accadere. Quando io torno, le cose accadono. Pensai. Intorno al ventaglio incandescente si riproducevano movimenti ondivaghi di pulviscolo rossastro. Un rosso non sicuro, strozzato con lembi adunchi, qualcosa che induceva a riflessioni senza esito, la maglia di una rete che si allarga, i nostri pensieri si infilano dentro come esemplari guizzanti. Timò lo avevo lasciato a Parigi. La Parigi di Maugham o di George Moore, scriveva Henry Miller; la stessa Parigi, può darsi, che amava Miller, l’autore americano che mio padre leggeva da ragazzo. Così l’ho letto anch’io.

L’amore è il veleno, è il fiume della Marna con un suono monocorde che all’improvviso sfocia nella sontuosa Senna e ripulisce ciò che era minimo, o irrilevante.

L’amore non è mai irrilevante.

Che sia per sempre non saprei.

Quanto dura un per sempre?

Dura anni?

Mai?

Quanto?

Dietro di me, le ragazze forse guardano il medesimo ventaglio sfogliarsi in un caleidoscopio di pulviscolo adunco e rossastro. Attraverso il ventaglio, notiamo pinnacoli di fumo o di vita estranea, imbarcata in un bastimento del petrolio a traino o in una nave da crociera, in modeste prode sorrette da vele ardite. La fierezza del mare selvatico infilato da tribordi o da catamarani battenti bandiera panamense. Le ragazze bisbigliavano la sorpresa, quando solo una certa bellezza del pomeriggio o della sera può sorprenderti lungo la banchina del porto. E devi saper osservare, non basta vedere; gli oltraggi che feriscono il cielo, si chiamano gabbiani. Le colombelle sui fili della luce, tubano senza temere il veleno dell’amore.

Quello resta agli uomini. Timò. Pensai. Timò, cosa ricorderai di me?

Non sono una donna – oggi, oggi dico – che ricorderete mai, mi riferisco a voi, animaletti, stupidi, che non siete riusciti ad amarmi. Uomini. Ma io non sono fatta per essere capita, traduco uno spaventoso individualismo, una forma autistica mi impedisce di contagiare il mondo della mia persona. Il mondo. Trovatemi l’alternativa al mondo, una parola che sostituisca una tale esitazione.

Ma allora era diverso. Allora ero una ragazza e con le altre aspettavamo impazienti che le cose accadessero.

Per questo tornavo, da ovunque, tornavo. Dalla distrazione dolente, era l’imo dove nascondersi, tornavo dall’assenza dolente, solo perché le cose potessero accadere.

Le cose in fondo non accadono mai, o lo sono già. Noi aspettiamo per vigliaccheria, per pigrizia. Le cose non accadono. Sono assestamenti del tempo, in una scelta arbitraria. Le fissiamo perché non seppelliscano noi. Sono deduzioni, spettrali o arcigne come guglie, spinose, implacabili.

Le cose non accadono. Sono morte. Assise. L’uno vale l’altro.

Le intenzioni sono gargoyle, mostruosità.

Le intenzioni che non si muovono, arretrano, incarogniscono, berciano mostruosamente come nel cucito di un gioco architettonico. La gargoyle imbellettata, è l’intenzione.

Con Timò era una stagione nuova. Intorno sembrava fiorire per intero l’universo e i suoi frequentatori.

Micragnosi nel mio, modico e siciliano.

Esser siciliani era una sventura, essere un ibrido ancora peggio. La creatura piazzata a mezzo tra una terra violenta e accecata e il suo pathos gravoso, consapevole.

Con Timò era un accidente. Oh, Timò, ripetevo, trasognata. La notte e il giorno.

E non lo rividi più.

Avevo dimenticato il tossico muliebre. D’un colpo. La sua abulia cimiteriale. Il suo non sussulto dinanzi alla ferocia dell’amore, il mio.

Così diseducata, lo amavo. E il tossico muliebre era come intontito. Ma era la roba. L’eroina nel suo sonno adescatore aveva la meglio. Crepare o meno era una possibilità del tutto priva di seduzione.

Crepare era niente. Era meglio. Meglio che non farsi di ero.

Ero, cioè eroina.

Timò stringeva la mia mano, trascinandomi nella via elegante, Rue de l’Echaudé. Sorrideva, mi guardava e mi trascinava oltre. C’era una nobile frenesia, i passanti antichi, usciti da un quadro impressionista, e le fanciulle, le ninfee di Monet.

Era una gran vita, d’improvviso.

La sera, le luci correvano lungo le guglie della cattedrale. Saremmo tornati in un luogo sicuro, io e Timò. La felicità. E invece sono ripartita.

Le ragazze chiedevano: Timò, è bello Timò?

Chiedevano: perché sei tornata?

Io ritorno sempre. Poi dimentico. Dimentico persino la ragione di un ripensamento e ogni cosa finisce e non mi domando la ragione. La dimentico. Dimentico la strada che torna sui propri passi.

Non sono mai tornata veramente.

L’inganno, il trompe-l’oeil. Non torno, non torno.

La vita gravosa, come un branco di mendicanti sull’unico pasto, vegliava in attesa di addentare l’altra, incompleta.

Deduco che l’unica forma di felicità, subentrata alle cose assise e dunque inesistenti o esistenti alla stregua di circostanze anonime e esangui, sia stata la vita incompleta. Felice.

In Rue de l’Echudé, più in là i salici, il ponticello con vecchi amanti oramai turisti di passaggio.

Io non lo sono mai stata per alcuno. Io non sono mai stata davvero nella stagione esatta, io per qualcuno.

Forse per Timò. Perché mi perdesse subito. Ed è questo il segreto. La non felicità si accontenta.

Bisogna perdere subito, abituarsi. Perdere, sé stessi gli altri, in un tripudio di insensatezza, toglieremmo aloni posticci alla felicità. Il grande terrore ingenera cercarla. Ingenera l’amore, il veleno insito, la reciprocità. Erano balle. Non lo sapevo.

Ero una ragazza. Soltanto. Tutto sommato.

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini

Leggi anche il capitolo 15

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