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VERONICA TOMASSINI INEDITA. FOREVER – CAPITOLO 19

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Non odiarti

Se ho dimenticato Timò è perché è nella sostanza delle cose. Voglio dire, degli avvenimenti. O: dei non accadimenti. Estinguersi. Di Parigi mi restava un gran rammarico. Dei baci di Timò, il pianto trattenuto. Non avrei mai immaginato che inaugurare una carriera di errori significasse anche cominciare a perdere, non smarrirsi, perdere: gli altri. Perdere nell’acme del desiderio, quando l’amore sta per mostrarsi nel parossismo e nell’impossibilità, e il tremore mi rende livida, una tenaglia mi afferra fin dentro le viscere, la tentazione di inginocchiarsi è il residuo della colpa. La colpa è aver issato qualcosa al di sopra di noi, al di sopra di noi ci sono i Cieli maestosi, e arriveranno, nuovi cieli, nuova terra; lumini baluginanti tenuamente illuminano i bastioni della rivelata Sion.

Avrei dovuto farneticare ancora. Nella mia carriera di errori. Franare nello sterco, a carponi, avanzare, riparare nell’imo del disgusto. L’obbrobrio, sarà tutto mio.

Dopo di allora, solo dopo di allora, avrò posseduto. La vittoria smilza. La vittoria della sventurata.

La sventurata festeggia da sola.

Nella vita, la mia meschinità ottenebrava l’immacolatezza. I soldi che avrei dovuto restituire a Monica. Un rigore morale me lo ordinava. I soldi del vecchio che accompagnava la madre. O fosse anche il suo. L’uomo piacente e maturo. Per noi era il barbogio. Uomo piacente, direbbe una signora educata e borghese sul ciglio dello spioncino.

I soldi li rovesciò sul letto. Un letto con la trapunta di seta color pesca, le lenzuola ricamate. La camera di una ragazza non era la camera di Monica. Sembrava un boudoir piuttosto. Il paravento, sostenuto da grate in ferro battuto, sembrava rimandare deprecabili ombre, dietro cui nascondere la precocità, una ferocia prevaricazione della vita stessa, sull’imberbe che vorrebbe sorprendersi. Ed era Monica, l’imberbe.

Lo sei mai stata? Le chiederei oggi. Con la sapienza di chi ha completato la sequela di errori, nella prima circostanziata partitura. La mia quota parte mi rende eccelsa, miserrima, preparata.

La quota parte di defettibilità versata al mondo perché venissi lavorata ai fianchi, la corda di spine stretta al ventre.

Monica rovescia i soldi sul letto. Ridiamo come sappiamo ridere, con disperazione. Lei conta le banconote del cornuto. Sono tante. Mi gira la testa. Mai visti tanti soldi tutti insieme. Comprerò gonne fiorate nei grandi magazzini de Lafayette. Ne prende largamente, stringe i pugni, banconote strizzate, come in una cesta, e me li versa addosso, versare, scivolano addosso, volano, simili a ali di strane e sbilenche farfalle. Vedo ondeggiare la carta rosata, una piumetta, oscilla, e finisce nella traiettoria e continuo a fissarla.

Così ridiamo, come sappiamo ridere, con disperazione.

Di colpo ripiombiamo nel silenzio, entrambe. Par che ci attraversi la medesima sventura, o ferita. Un taglio di traverso. Monica lo incassa con disprezzo, la smorfia sul viso, bello, bianco e caduto. Caduto, sapete la mollezza morale, denunciata da Andreina, nel lungofiume, l’Andreina di Moravia. Doveva gettarsi tra le correnti. Odiosi kareninismi direi oggi, dall’alto della mia avvedutezza, scaltra ed errata. La regina della stoltezza.

Non odiarti, mi dico.

Non odiarti. Guardo fuori la finestra, il salice imbiondito dal sole di maggio. Il picchio sul ramo.

Allora, nella stanza che era un boudoir, raccolgo le banconote. Monica dice: prendi, sono tue.

I soldini. Meretricio. Cosa? Prendi, non lamentarti. Non ero innocente, non più di Monica o della madre.

I soldini. Sono partita con i soldi del vecchio cornuto.

Ecco. Come possiamo chiamarla l’avidità nel tempo non concesso?

Di Parigi ricordo il Palas Royal, o il romanzo di Miller, quel porco di Van Norden, la Comédie Francaise.

La bottiglia di Calvados.

Impronunciabili volgarità esercitate da un gruppo bevitori, lerci e cosmopoliti. Quella Parigi era di Miller, non la mia.

Ma lo sarebbe stata comunque, la mia, a un’età in cui non è concesso altro che lo stupore.

Quando tornai, tornai alla miseria delle notti nei club.

Monica era cattiva e chiedeva con insolenza: perché sei tornata?

Ero tornata per perfezionarmi nell’inciampo, per poter essere al centro di una nuova privazione.

Se avessi avuto la consapevolezza disciplinata da una qualche morale dovrei chiamarla rinuncia. Invece preferisco la parola privazione, con essa c’è il senso del mio mutismo, infantile. Un sacrificio privo di gloria. Un procedere ignaro al mattatoio senza l’ombra di un gesto stoico, o il tentativo nemmeno.

Al club, ritrovai l’antico amore, muliebre e fiacco. Fatto di ero. Sarebbe morto.

Pensavo fosse bello perché era dannato, come Rupert Everett. Mi piacevano gli uomini così, senza carne, prossimi alla disfatta. Nel tempo, cambiai decisamente opinione al riguardo. Frequentavamo tuttavia signori d’alto rango, maturi, pederasta più che altro. Pervertiti.

Da qualche parte, infilavo le mie malinconie, il rimpianto, la mia irragionevolezza. Da qualche parte ero ancora un’adolescente.

Nella stanza di Monica, i mobili d’epoca appesantivano la luce. L’armadio di noce, il grande specchio. Aprì i cassetti e tirò fuori meravigliose culotte di raso e di organza. Volevo i suoi vestiti. Ero troppo magra, le culotte sono fatte per le donne.

Io non lo sono mai stata.

Presi un vestito, uno a caso, sudato e pregno di un profumo dolciastro, lo indossai, era nero, mi fasciava dai piedi al collo, pizzo e seta. Erano gli anni del pizzo, della seta, l’ovvietà della seduzione. C’era poco da riflettere. Cos’è la seduzione?

Infilai il vestito.

Magra. Così magra. Monica riprese a ridere.

Ti prego, le dissi.

Magra come uno stambecco.

Gli occhi smarriti fissavano l’immagine allo specchio.

C’era una bambina, davanti a me. Lo specchio me la restituiva con un vestito lungo e nero. Le labbra scure, il visino smunto, adombrato da un tenero rovo di capelli, bruni, ondulati, lunghi.

Sai chi era?

Lo sai?

Era lo stambecco. La pietosa giuliva, l’immane indecenza.

Ero io.

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini

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