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VERONICA TOMASSINI INEDITA. FOREVER – CAPITOLO 18

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Sei mai stata felice?

La scuola del piccolo Bronx sembrava sparire e ricomparire, dentro le spire di una improvvisa tempesta di sabbia.

Proveniva dall’Africa. Odiavo la mia reminiscenza araba, o come chiamarla. Una memoria vaga che fissavo disgustata dentro i brevi turbini di polvere, attraverso cui sparivano i ragazzi in cortile, le urla, mentre la voce della vita, pregna di umori e disordine, diventava lontananza. Gli isolati percorrevano strade accecate dal sole di mezzogiorno. E quel mezzogiorno era il mio terrore, la luce cancellava i profili delle cose, deteneva un clangore fitto o una strana oscurità. Era bianca talmente, talmente furiosa, la luce, da restituirsi nera sui tetti, fino a prevaricare il cielo gonfio della sabbia del deserto.

E tutto era deserto. Più o meno sempre.

La luce si smarriva, dalle gratelle del bagno, osservavamo incombere la nudità del destino quando incespica invece che annunciare o mostrarsi prestante così come il nostro tempo avrebbe preteso: la giovinezza, margine inafferrabile, che forse avrebbe sconfinato nella medesima lusinga, cioè l’inganno, il giorno che si interrompe presto e sbrigativamente.

Un giorno di molti anni dopo, me ne accorsi. Fissavo oltre l’appannatura della finestra della camera da letto. Una camera vuota. Fissavo il picchio battere sul ramo del salice, la brezza proveniva dal mare e rifondava altre memorie. Mi accorsi che lo stesso venticello albeggiava per noi talvolta, quando eravamo ragazze, nell’illusione di un annuncio maestoso. Era un inganno.

Ed era il medesimo venticello che fissavo sul salice, mentre il picchio batteva sul ramo fiorito.

La notte, il mare borbogliava, lo ascoltavo oltre i vetri, armeggiare con le fenditure misteriose, benedette dal silenzio – nascosto nel balenio, tra una fronda e un frusciare – consegnava segrete animosità.

Il mare gorgogliava, perché io lo udissi, e il silenzio era complice. Non il tacere. Il silenzio, simile alla parola che affiora dagli anfratti, la parola che non si svelerà se non lungo un sentiero di pietre e di inciampi.

Maggio.

Con le ragazze, le mattine di maggio, preferivamo le mulattiere che costeggiavano il mare, percorrerle quasi mogiamente, pensierose o colte dal soprassalto del turchino tutto intorno. Da lontano, si ergevano mediocri le case dell’oltraggio. Mediocri nella sostanza di chi le aveva immaginate, disegnate.

Erano stentoree e ferme, conclamavano la supremazia dell’inanità popolare, la sconfitta meritoria, il grande avvenimento, un suicidio morale a suggello di una qualsiasi rivendicazione da quarto stato.

Era il sud. Era troppo gravoso persino pronunciare l’identità, sentirla addosso, come la zimarra, vilipesa, del pastore trucidato nel nome delle torrette fumanti. Il pastore resistente, trucidato, mentre afferrava avidamente quel che restava di rena, pesci guizzanti, conchiglie dal tergo lustro e adamantino o della chiesetta poco più in là, di cui si deduceva oramai solo il fregiato e antico rosone.

Ero allora sì giovane, della giovinezza senza guarnigione, per intenderlo, il crimine. Noi, le ragazze, lo eravamo già compromesse da uno che si compiva, meticolosamente. Pensavamo ad altro.

Percorrevamo la mulattiera. Le case franavano sull’insensatezza, macerie si ammonticchiavano su cunette maleodoranti; cani rabbiosi latravano dentro abbaini coperti di ruggine, ruvidi come la rabbia. Al di là del fianco, però, costeggiava la luce turchina, i cespugli di gelsomino, i fiori carnosi, splendidi e, parimenti a stelle, sorprendevano con la grazia dell’inatteso, lo sterpo bruciare, il canale gorgogliare la diseducazione. E noi, le ragazze, eravamo dentro il crimine, il balzello, il senso superiore dell’oltraggio, il sud. Eravamo dentro, percorrendo il sentiero contaminato di probabilità, speranze affilate, percorrevamo la mulattiera fino alle case.

Maggio era immacolato, era una preghiera, ogni passo era un granulo da sgranare. Era così maggio, ma non lo sapevamo.

Tornando da Parigi, mi ero come liberata da una crisalide, pensando di poter mantenerne la vigoria o una tale bellezza disperata soltanto a ricordare, per molto ancora. L’idea di Timò. Quel che restava di quel prodigio fugace. Ogni miracolo che ha attraversato la mia vita mi appare adesso fugace, ancor meno, o ancor più. Mi ha attraversato, blandito.

Sono la sconsolata.

Non lo avrei realizzato, nei giorni della mia giovinezza, ero abbastanza soverchiata dalla miseria del resto, da credere di non dover risorgere oltre.

Ero una rediviva, morta infinite volte. Era un cinismo nella forma del virgulto abortito a opprimermi.

Cominciai a coltivare la tristezza, nel vergognoso e sottaciuto patto, stabilito con uno spirito superiore intorno a aleggiare.

La tristezza. Il mio cilicio.

Le ragazze raccoglievano i fiori selvatici sui bordi della mulattiera. Cespugli di sterpo. Strane corolle esplodevano. Noi eravamo le corolle. Esplodevano in un fucsia smagliante, giallo irrorante lamelle di gaudio, raggiere come viatici dove addentrarsi.

I nostri viaggi da anime cadute, fragilissime e cadute. Ceppi vuoti e franati.

Eravamo.

Timò mi raccontava la Senna e Place des Peupliers e la Morte Nera e Goethe.

Ero incantata. Come era possibile? Come era possibile che quell’uomo riuscisse ad amarmi?

La bestiolina inselvatichita era riformata. C’era lui.

Ed io era bella, finalmente, senza agitarmi.

Non dovevo scalpitare, o disseminare ovunque fiotti di sangue, il mio rancore o la piaga o il cilicio.

Ero bella perché c’era lui.

Sedevamo in un caffè al ventesimo arrondissement. Non parlavamo. Soltanto Timò, a volte, raccontava qualcosa. Mi sorrideva con comprensione. Tutto conchiuso, in pochi giorni.

L’amore è smisurato. Ho dovuto organizzarlo, in stanze. Le stanze hanno raccolto gli anni. Sono mausolei spaventosi. Tuttavia allo stato dei fatti, da donna adulta, ammetto che molto ho dimenticato. Così la mia riedificazione degli avvenimenti non è affidabile.

Mento. Capite?

Saltammo su una carrozza, d’improvviso Timò mi invitò alla follia. Eravamo nella Parigi di Matisse, d’un tratto. Il cocchiere in polpe. Era la giustificazione immaginaria delle mie letture, i libri, i romanzi dei naturalisti francesi.

Oh, Parigi.

Monica, così caduta, Monica, mi chiese un giorno di mille anni fa: sei mai stata felice?

Sono troppo vecchia, le dissi.

Mi dispiace, le dissi.

Raccolse il fiore selvatico, nella mulattiera sul costone della baia col cielo turchino; vedemmo le case laggiù.

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini

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