Il 12 ottobre 2004 nel cimitero di Ris-Orangis è stato celebrato il rito funebre per Jacques Derrida ed è stato letto (dal figlio Pierre) il suo ultimo messaggio: «Jacques non ha voluto né rituale religioso né orazione funebre. Egli sa per esperienza che prova sia per l’amico che se ne fa carico. Mi chiede di ringraziarvi per essere venuti, di benedirvi, vi supplica di non essere tristi e di non pensare che ai numerosi momenti felici che gli avete offerto l’opportunità di condividere con lui.
Sorridetemi, dice, come io vi avrei sorriso fino alla fine.
Preferite sempre la vita e affermate senza posa la sopravvivenza…
Vi amo e vi sorrido da dove io sia.»
Questo testo che Derrida indirizza alle persone amiche presenti affinché venga letto come ultimo saluto (e su cui ci sarebbe tanto da dire) lo si trova come preambolo in un libro che io leggo di continuo “Ogni volta unica, la fine del mondo”, una raccolta di orazioni funebri, memorie, testimonianze per Roland Barthes, Paul de Man, Michel Foucault, Louis Althusser, Edmond Jabès, Louis Marin, Gilles Deleuze, Emmanuel Lévinas, Jean-François Lyotard, Maurice Blanchot e altri: filosofi, scrittori, amici, ma non si tratta per J.D. di commemorare, ma di continuare a pensare con loro — nel tempo che resta. C’è una frase in quarta che continua a lavorare la mia memoria: “l’abbagliante testimonianza di una fedeltà svincolata da qualunque obbligo, fosse pure quello prezioso dell’amicizia”, in effetti, dice D., la morte dell’altro — soprattutto se è qualcuno che si ama — non è soltanto una perdita individuale. Ogni volta, essa segna la fine di un mondo, di quel mondo preciso, unico, insostituibile, che solo l’altro sapeva far esistere.
Qualche mese prima, nell’agosto di quell’anno, uscì su “Le Monde” l’ultima intervista a Jacques Derrida e Federico Ferrari me la mandò. L’intervistatore gli ricordava un passaggio divenuto emblematico, tratto da Spettri di Marx — un libro del 1983 che ha segnato una soglia nel suo pensiero: “Qualcuno, voi o io, s’avanza e dice: vorrei finalmente imparare a vivere.” Cosa significa questa frase? Non è una dichiarazione ingenua, né un proposito morale. È una domanda lacerante. L’intervistatore gliela rilancia: dopo tanti anni, dopo tanti libri, dov’è, lei, Derrida, con questo desiderio di imparare a vivere? Derrida risponde con una lucidità che allontana e accoglie al contempo: “Imparare a vivere è anche maturare, educare” — ma poi subito aggiunge, obliquo, sempre un po’ trattenuto: “Però apostrofare qualcuno per dirgli adesso ti insegno a vivere significa, in tono minaccioso, ti raddrizzo io.” Quella frase sembra innocua ma si rovescia nel suo doppio: non è più desiderio di apprendimento, ma gesto punitivo, affermazione di potere. E Derrida va oltre con la domanda più difficile: vivere, si può imparare? Si può insegnare? Si può apprendere — per disciplina, per esperienza, per prova — ad accettare la vita, affermarla, abitarla?
“Voglio rispondere alla sua domanda: no, non ho mai imparato a vivere. Perché imparare a vivere dovrebbe voler dire imparare a morire. Assumere, senza alibi e senza riserve, la mortalità assoluta: senza salvezza, senza resurrezione, senza redenzione.” Da Platone in poi, ci ricorda, questa è l’antica ingiunzione filosofica: filosofare è imparare a morire.
Io credo che sia da qui che ha cominciato a parlarmi Derrida. Non come maestro – sappiamo le cose fondamentali che ha scritto – bensì come qualcuno che ti precede di poco, che inciampa davanti a te su un sentiero senza mezze misure, incommensurabile.
Ecco, io non desidero orazioni funebri. Nessun rito, nessuna chiesa. Vorrei fare senza, vorrei che nessuno finga di sapere dove (non) si va. Tantomeno salette comunali, sale d’attesa, dopolavori ferroviari o centri sociali senza aria, insomma non vorrei nulla, non vorrei essere neanche dimenticato subito, certo, però vorrei sparire prima, un po’ prima. Niente fiori, né parole solenni, né pianti orchestrati. E nemmeno circoli lussuosi con le tovaglie stirate e i volgari calici sollevati. Non vorrei nulla, solo il silenzio dove si può ascoltare l’invisibile.
Luca Sossella