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Yasmina Reza anteprima. La vita normale

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La vita normale” di Yasmina Reza (Adelphi Edizioni, 2025 pp. 190 € 19.00), nella traduzione di Davide Tortorella, esce nelle librerie il 13 maggio. La scrittrice vaglia con l’analisi dettagliata che da sempre contraddistingue la sua scrittura l’indagine ponderata e approfondita sulla psiche umana, analizza con spietata e irriverente lucidità ogni scheggia inestricabile dell’umanità, regalando al lettore, ancora una volta, un omaggio meraviglioso e distruttivo della vita degli uomini, nell’incanto perverso delle loro spaventose e infauste contraddizioni. Yasmina Reza osserva l’apparente normalità dell’esistenza, declina le possibilità delle relazioni sociali, morali, affettive, adagiate sulla superficie sconnessa della quotidianità, dona il valore clinico delle metafore rileggendo l’intensità di una letteratura carica di conflitti interpersonali. Cattura l’intrigante complessità e l’ambiguità inquietante dei suoi personaggi, avvinti nell’insinuante e corrosivo palcoscenico dell’ordinario che inevitabilmente invade il misterioso spazio interiore nel quale si trascina l’urto della realtà e si alimenta l’indizio oscuro dell’inconscio, divorando l’improvvisa, brutale e imprevedibile proiezione della coscienza. “La vita normale” descrive rivelazioni sottintese al patrimonio fragile e conturbante della natura umana, introduce l’ispirazione per l’angolatura nascosta e invisibile delle personalità, riproduce l’enigma del mondo attraverso il disincanto silenzioso e pericoloso delle abitudini, concentra pagine di sconcertante solitudine nei dettagli pungenti e spietati della disperazione. Raccoglie le incisive testimonianze dai tribunali in una disarmante panoramica giudiziaria che suggerisce le incomprensibili e impressionanti variazioni offuscate dei comportamenti, rileva una seducente e significativa collezione di particolarità in cui i protagonisti sono l’espressione acuminata e precisa di ogni sfumatura interpretativa. Yasmina Reza sprigiona l’evocazione ricorrente di ombre nelle rappresentazioni delle tracce emotive e delle influenze cognitive che travolgono lo scenario delle udienze, abitato dall’incognita di ogni pena, immerge nel lettore il contenuto esitante e malinconico dei contrasti, osserva l’inezia indicativa e gli elementi illuminanti della sostanza deflagrante dell’uomo, l’aspetto straziante e inatteso delle conseguenze. Lo stile di Yasmina Reza assorbe nella superba unità narrativa la ferocia disarmante delle parole, aleggia sopra ogni impercettibile, lucida e inesorabile perspicacia nel meccanismo acuto e tagliente dell’intelletto, dimostra quanto la capacità di abitare il distacco e l’impassibilità inalterabile sia la finalità di visitare l’incarnazione della realtà nel ritmo grottesco e paradossale delle reazioni. Annota l’esplosione del pensiero sospeso nelle ipotesi di un registro, sempre teatrale, in cui l’evoluzione della tensione mimetizza la nitidezza della visione ironica e sarcastica, sorprendente e commovente. Yasmina Reza cerca nel confine della narrazione la circostanza eloquente, l’opportunità di disvelare la qualità intima dell’innocenza dietro la curvatura incriminata della colpevolezza. Lascia libera la veridicità sui temi d’attualità, non afferma giudizi etici, ma preferisce indugiare su un curioso atteggiamento, una irregolare e originale movenza, una singolare tendenza per comunicare l’inclinazione alla finitezza, il fluire della consuetudine. Un libro compassionevole e implacabile, un omaggio artistico e poetico ai contenuti granitici dei tribunali e alla memoria privata e struggente dell’autrice con gli amici intellettuali, intrisa di esiliata, lontana nostalgia.

Rita Bompadre

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ULTIME OMBRE

Quando sono a Venezia, fotografo vecchi di spalle.

Vecchie coppie, intendo dire.

Tutta gente che altrove non mi è mai capitato di vedere. In nessun altro posto al mondo ho visto pariglie come queste: lente, silenziose, infagottate. I loro

passi si

accordano con lo sciabordio, con il rumore delle imbarcazioni che si urtano. Hanno sempre vissuto qui, ne sono certa. Si inoltrano da soli in calli vuote, a testa bassa, attaccati l’uno all’altro, pratici dei muri, dei gradini, sanno dove svoltare e sparire in

un’ombra. Talvolta è l’uomo che sta aggrappato al braccio della donna, talvolta il contrario. Le foto sono scattate perlopiù al tramonto, o di sera. Sono le ore in cui li

vedo, con addosso certe pellicce senza età, visoni ultralarghi di spalle e di tutto, e gli uomini in loden a martingala, di ampiezza non meno spettacolare e fuori moda. In testa portano cappelli di feltro, e le donne berretti tondi di lana che coprono le orecchie e ingigantiscono le teste.

Indumenti sfarzosi, che alla loro dipartita saranno gettati in una barca, appesi alle grucce di un rigattiere o distrutti. Ma io li avrò almeno visti passare, ultime ombre

di questo labirinto d’acqua.

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L’ASCETA

Nel mio quartiere incrocio spesso un uomo ancora giovane, un tipo orientale, di grande bellezza, che vive per strada.

Dorme disteso sul marciapiede senza coperta, il corpo esposto allo sguardo. Lo vedi in posizioni meditative di ogni genere, addossato ai muri con qualsiasi clima, posseduto da chissà quali pensieri remoti, o accoccolato, furtivo e silenzioso, sul davanzale di una finestra.

Viene dalle colline dell’Afghanistan o dell’Iran, così m’immagino.

Accanto a lui talvolta una bottiglia di acqua o di CocaCola, e alcune brioche disposte in fila sul cemento. Come se prima di toccarle dovesse metterle in ordine.

Adesso che l’inverno è alle porte ha addosso una giacca a vento rossa e nera con un gomito completamente stracciato e un berretto ricoperto dal cappuccio di una felpa.

L’altro giorno, che pioveva a dirotto, si era piazzato su una grata di aerazione come un misirizzi immobile, le gambe raggomitolate al petto e coperte dalla giacca a vento, la testa infossata. Quando sono ripassata un’ora dopo era sempre lì, completamente inzuppato.

Non l’ho mai visto chiedere l’elemosina.

Una volta un giovanotto gli diceva qualcosa. Non so in che lingua, ero sul marciapiede di fronte. Ho spesso l’impulso di attaccare discorso ma non lo faccio. Tiro dritto.

Sembra insensibile alla noia. Mi sono fatta l’idea di un asceta o di un monaco che si infligge una penitenza. Stamani che è domenica, tornando dal mercato con dei

fiori, l’ho visto di spalle davanti alla vetrina spenta di un negozio.

Pioveva, l’uomo si muoveva appena, con il corpo incollato all’inferriata.

Mi sono avvicinata. A un certo punto si è piegato, quasi inginocchiato, per scrutare attraverso i rombi di ferro le sottovesti di seta e di pizzo, le foto delle ragazze svestite, gli stupendi corpi di resina abbigliati di lingerie trasparente.

Negli ultimi tempi lo vedo provato dal freddo. La faccia è crollata, i capelli sono cresciuti, si scorge qualche filo bianco. Parla da solo, infagottato in panni sgualciti e

sporchi. L’inverno è passato. Non lo incrocio più.

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