Han Kang costruisce un romanzo che sembra una fiaba oscura, che mescola il sublime e il grottesco, la bellezza dei fiori e l’odore pungente del sangue. In apertura, Yeong-Hye decide di diventare vegetariana — ma il motivo non è etico né salutista: è un istinto viscerale, un’urgenza di disincarnarsi, di liberarsi del peso della sua esistenza.
La scena del sogno in cui la donna si vede stritolata da quintali e quintali di carne marcescente è come una lama che squarcia l’interno — proprio come direbbe Franz Kafka: “un libro deve essere un’ascia che rompe il mare di ghiaccio dentro di noi.”
In questa scelta radicale di Yeong-Hye c’è qualcosa che scuote, che rompe l’equilibrio, la routine, le illusioni confortanti.
Yeong-Hye – in un contesto sud‐coreano tradizionalista e borghese – si trova ad affrontare lo sguardo di disprezzo del marito, l’ostilità della famiglia che non accetta la sua scelta. Lentamente, entra in un vortice: rinunce, apatia, isolamento. Non desidera più il rapporto sessuale perché suo marito “puzza di carne”, parla poco, diminuisce sempre più il cibo, il suo corpo si aguzza, si fa evanescente.
E quando la sorella In-Hye la fa internare in un manicomio, la situazione non migliora: è come se ogni tentativo di sottrazione la portasse ancora più vicino al baratro.
Le uniche azioni che sembrano “occuparla” davvero sono quelle che imita dal silente mondo degli alberi. Si denuda per suggerire alla pelle di bere la luce solare, affonda le mani nel terreno come radici: il suo corpo diventa paesaggio. Il cognato, artista inquieto e perverso, la dipinge con fiori screziati sul corpo: in quella rappresentazione lei sembra rinascere. Le piante non hanno bisogno della sofferenza altrui per vivere. Mors tua, vita mea non è la legge vegetale.
Yeong-Hye non aspira alla morte: aspira a una vita che non sia fabbrica di morte. Ma questa aspirazione si scontra con leggi inesorabili — della natura, del corpo, della società.
Han Kang lascia sullo sfondo le ragioni inconsce — per esempio l’infanzia di Yeong-Hye con un padre violento, il matrimonio infelice che la imprigiona — ma non scava psicologicamente in modo frontale. Il racconto è affidato alle voci del marito, del genero e della sorella: tutti narratori che poco o nulla
sanno dell’interiorità della protagonista.
Ecco: quell’ignoto è parte del fascino. Yeong-Hye appare, a tratti, come malata che non regge più il peso delle violenze subite e dell’indifferenza; a tratti, come mistica lucida che, squarciando il velo di Maya, giunge a una verità essenziale sulla iniquità della vita umana.
Nel finale, la sorella In-Hye, pragmatica, di successo, con una biografia meno travagliata, inizia a vedere — come la gobba di un mostro che emerge dalla superficie placida di un lago — l’orrore e l’insensatezza dell’esistenza.
La malattia è contagiosa? O In-Hye ha finalmente compreso la sorella?
Perché cercare le cause dietro esperienze così tragiche? Han Kang sembra suggerire: quell’indagine psicologica deve cedere il passo a una questione più urgente: che cosa si fa davanti al dolore di persone come Yeong-Hye?
E la risposta – oscura, provocatoria – sembra suggerire una via che pochi hanno il coraggio di ammettere: l’eutanasia, la liberazione dalla sofferenza, il rispetto per una vita che non ce la fa più.
Ho faticato a lasciare andare via questo subɔime romanzo — e lo ribadisco: perché queste pagine stanno come una ferita aperta ma dolorosamente bella. Ti obbligano a guardare il corpo, la carne, le radici, la trasformazione, il silenzio. Ti obbligano a interrogarci sulla libertà, sul corpo, sulla violenza sociale, sulla ribellione che non sa nome. Ti lasciano con una sorta di tremito: “E adesso?”
La prosa di Han Kang è elegante, precisa, poetica. L’insieme è un’esperienza di lettura che non si dimentica.
È un libro che ti fa sentire fragile… e vivo allo stesso tempo.
Sì, se non l’avete letto ancora… preparatevi: non è comfort reading. È una lettura che richiede coraggio, che provoca.
Han Kang sarà a Milano per presentare il suo nuovo libro Il libro bianco il 5 novembre 2025 al Teatro Dal Verme.
Francesca Mezzadri