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Yoko Tawada. Gli ultimi bambini

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Libro (vincitore del National Book Award nel 2018) scritto e compilato a frammentazione, mescolando passato presente e futuro in un tempo senza futuro plausibile né passato se non quello ufficializzato, libro arduo nelle sue scansioni rapsodiche che non vogliono mai disegnare una cronaca consequenziale, adottando uno stile che s’inerpica lungo pareti viscide e verticali di un presente amorfo, sospeso, senza più odori e sapori, indefinito nel suoi scopi che non siano quelli del mero sopravvivere,  dell’adattarsi comunque in un Giappone in cui terre e mari sono inservibili a causa del Fall-Out radioattivo.

Isolati in questa realtà postatomica senza contatti veri col prossimo e con l’esterno il libro segue le giornate sempre uguali di Mumei e del suo bisnonno Yoshiro che si prende cura di lui con costante dedizione, a volte commosso dal dolore per le condizioni di questo pronipote. Yoshiro è uno scrittore, un’intellettuale senza ambizioni, lasciato solo dalle moglie e dalla figlia ad occuparsi di Mumei. I bambini nascono con corpi malformati, inficiati nella costituzione ossea, con legamenti e cartilagini compromessi, inabili nella deambulazione, costretti prima o poi in sedia a rotelle, con specifiche modificazioni psichiche che ne avranno segnato i cinque sensi e il modus del linguaggio e quindi l’apprendimento, favorendone come contrappasso stranamente una più strenua resilienza, bambini destinati prima o poi ad un scambio di sesso, probabilmente sterili, un mondo senza più procreazione mentre paradossalmente gli anziani sembrano destinati a non dover subire alcun logoramento fisico. Mumei è un pronipote e uno scolaro, dotato di uno spirito acuto e compassionevole, del tutto scevro da ogni forma di autocommiserazione in una società acefala dove gli anziani rimangono sani e vivono oltre i cento anni e paiono i soli a mantenere il ricordo del mondo di prima, libro che prende spunto dalia catastrofe nucleare di Fukushima per descrivere un mondo stravolto, rimesso in piedi in un ordine raffazzonato precario come all’interno di un accampamento militare ormai allo sbando ma disciplinato, con condanne esemplari all’ergastolo solo per una parola di critica, per aver usato un termine straniero, un’ordine con le proprie misteriose gerarchie, le frontiere chiuse, che vieta termini esterofili, con una classe al potere segreta ed ondivaga che delibera ciò che poi il giorno dopo revoca, dove tutto è privatizzato, giustizia, polizia, scuola, sanità, la gente scampata al disastro costretta a vivere in quartieri provvisori appositi, nella penuria generalizzata di cibo, nello stravolgimento delle stesse strutture antropometriche della comunicazione, già compromesse dalla divisione antropologica tra giovani e vecchi. 

Libro che gioca coi fonemi, con le radici del linguaggio, con allitterazioni e cacofonie,  libro erratico si diceva, che come una matrioska russa disvela quando meno te lo aspetti dettagli di comprimari il cui segno che li identifica sarà sempre il medesimo senso di estraniazione ma per ciascuno congegnato come unico e specifico, estraniazione a volte collimante con anamnesi di autismo, schizofrenie, dalla narrazione dei fatti d’ogni giorno se ne ritraggono di filato nuovi personaggi, nuove psicologie, ciascuno alieno all’altro, accettandone in ciascuno la vigenza di un proprio peculiare danno psichico, della recrudescenza del danno nella vita quotidiana, come si procedesse dentro un dramma che rimane ieratico, inspiegabile, lunatico nella reattività distorta degli umani che poi sarebbero i soli sopravvissuti tra le specie animali. 

Dove anche il senso narrativo sarebbe colto soltanto frugando nei particolari, negli atti più comuni, nell’episodico di ogni giorno, del gesto, dove ciò che rimane umano è riferibile unicamente alla psiche degli anziani, i soli a ricordare un’altro mondo ora derelitto e scomparso dove era pur contemplata la pietà, la stessa pietas ora obnubilata nei giovani però forieri di un’inedita insperata interattività, di un nuovo criterio di assegnazione delle emozioni, di una ricerca tutta interiorizzata dell’amore sotto forma di mitezza, timidezza e una più profonda riflessività che apre all’empatia, al raccordo col prossimo, fuori finalmente dalle diagnosi di endemico autismo, un’empatia appresa ricercata oltre il muro della solitudine, nell’anelito direi primordiale di cercare nell’altro noi stessi. Con cui si configura l’essere umano del futuro post atomico, un essere umano distorto che la Natura comunque avrà delineato come degno di vivere ed amare contro ogni evidenza. Questa vita che si fa demone! Che crea sopra la distruzione, nonostante la distruzione avvenuta! Ossia quei bambini che saranno gli “emissari”, coloro che traghetteranno il Giappone verso “la bellezza del tempo che deve ancora venire”.


Marcello Chinca


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 Yoko Tawadadi Tokyo di Yoko Tawada, Atmosphere Libri, 2021, traduzione Veronica De Pieri, pag. 200

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