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Acari. Intervista a Giampaolo G. Rugo

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Acari è l’esordio letterario di Giampaolo G. Rugo, che scrive per il teatro, la radio e il cinema. E si legge bene. Di teatrale vi è la consapevolezza profonda dell’altro. Anche quando l’altro, o l’altra, resta un mistero profondo. I racconti sono collegati come quadri di una pièce teatrale, o un film a episodi. Il tempo passa e i protagonisti intrecciano esperienze e maturano visioni. Acari è un malinconico e delicato paesaggio urbano che confonde i territori interiori in uno spazio di crescita che modella le storie di personaggi. Ragnatela. Intrigo. Sorpresa. Un puzzle anche di registri, come in I tre tenori, tra giornalistico e dialetto. Vi ho letto degli accenni a John Fante, a tratti a D.F.Wallace. Un melanconico realismo che ripete morte e tristezza, ma pure speranza e domani è un nuovo giorno. «Ognuno di noi è un mistero, ognuno può nascondersi in un punto dell’anima agli altri sconosciuto, in un luogo immaginario dove nessuno potrà mai trovarlo.» Questo è Acari. Capacità metamorfica di un autore che sa vestirsi dell’Altro, sa mettersi da parte e ascoltare il mondo. Il tempo. L’orizzonte mutevole della solitudine umana che si fa enigma, dono, ironica burla. Che si fa racconto, condivisione.

«Restai così, ipnotizzato, a fissare le losanghe del pavimento: viste da quella prospettiva sembravano un campo di croci.» È un estratto del racconto Acari che dà il titolo alla raccolta-romanzo. Ma è anche un brano che riassume bene il tono del libro: disattese, sorprese, collegamenti lontani nel tempo. Un flusso unico, orchestrato secondo sceneggiature differenti. Perché hai scelto proprio questo titolo e come hai lavorato per organizzare i racconti in un tutto unico?

Una delle protagoniste dei racconti, Claudia, di mestiere fa la venditrice porta a porta di aspirapolveri antiacari. Nel presentare il prodotto ricorda che gli acari sono invisibili all’occhio umano, che ogni grammo di polvere ne può contenere fino a quindicimila e che si nutrono di scaglie di pelle umana. Qualcosa di nascosto, nascosto nei materassi, il luogo del riposo; qualcosa che a nostra insaputa si nutre di noi; a me sembra un’ottima metafora di quello di cui parla il libro. Per quanto riguarda la seconda domanda, ho cominciato a scrivere dei racconti slegati, ben presto ho capito che mi sarebbe piaciuto che ci fosse un filo conduttore che li legasse e ho pensato che sarebbe stato bello se tutte le storie fossero andate a raccontare insieme una storia più grande. Così ho organizzato il materiale in questa maniera e andando avanti la storia centrale ha preso il sopravvento e ha determinato anche la scrittura di nuovi racconti e l’aggiustamento dei vecchi.

«(corteccia cerebrale fascio cortico-spinale corna anteriori del midollo spinale cervicale motoneuroni placche motrici vari muscoli indice guancia).» In Intermezzo: i quattro gesti di Gimbo ho l’impressione che la tua scrittura diventi teatrale, nel senso che oltre a presentare una velocità, per così dire, radiofonica, indugia sul corpo, sui gesti, che diventano linguaggio: «Voleva trasmettergli in forma pre-verbale tutta la forza del suo desiderio.» Il fatto di scrivere per il teatro e il cinema ha influenzato in qualche modo le tue scelte stilistiche?

Foto di Massimiliano Maggi

La scrittura per il cinema deve essere finalizzata al racconto per immagini della storia in modo da permettere al regista di visualizzare il materiale che poi andrà a girare. Mediare questo modo di scrittura in narrativa mi è stato utile soprattutto nei racconti che hanno come protagonisti il gruppo di adolescenti negli anni 80. Questi amici, come fa ogni adolescente, esperimentano il mondo in maniera sensoriale. La vista, l’udito, il tatto, l’olfatto. Avere avuto quell’esperienza è stata utile per cercare di fare in modo che il lettore, leggendo, tornasse all’adolescenza insieme ai ragazzi. Così in alcuni dialoghi e in alcune situazioni che si sviluppano in luoghi determinati spazialmente, mi è stato utile avere lavorato per il teatro. L’unità di luogo è una di quelle limitazioni creative che diventano benzina per la creatività. Tutti questi linguaggi sono stati messi a servizio di una scrittura che è narrativa, l’auspicio è che lo stile in questa maniera abbia acquistato una sua originalità.

«Non sanno ancora che Vittorio sta lottando tra la vita e la morte in ospedale, non sanno che oggi sarà il giorno più bello della loro vita.» Siamo al primo racconto e la cifra del romanzo-in-racconti è già in parte tutta qui: giochi con i confini, con il labile che mette in scena elementi contrastanti, che convivono in un’armonia superiore. Hai lo sguardo del regista e del pubblico allo stesso tempo. Come sei riuscito ad ascoltare i vari punti di vista dei personaggi e a farli con-crescere in quadri differenti?

È stato divertente, perché gli stessi personaggi sono narrati in un arco temporale che parte dagli anni 80 e arriva ai nostri giorni. La sfida era dare a ogni personaggio diverso un’identità precisa, e per ogni singolo personaggio declinare la sua identità secondo l’età che ha nel racconto. Ho fatto molti tentativi, ho lavorato fino a quando ho trovato la chiave che a me sembrava giusta.

Claudia, Mario, Gimbo, Aldo, Franco, Giulia: sono alcuni e alcune dei personaggi. C’è fra loro un personaggio che preferisci, o magari un personaggio nato per primo che poi ha dato origine a tutti gli altri? O sono nati insieme?

Più o meno sono nati insieme e si sono definiti mano a mano che li scrivevo, anche in riferimento alla struttura, come dicevo sopra. Per quanto riguarda la domanda se c’è un personaggio che preferisco direi che la risposta più sincera sia quel vecchio adagio napoletano che dice che ogni scarrafone è bello a mamma soja.

«Da una settimana, impetuosa e improvvisa come succede a Roma, è scoppiata la primavera. Sono passate poche settimane da quel sopralluogo alla Magliana, ma adesso fa caldo, il sole è alto e l’aria è limpida;» Roma è lo scenario dei cambiamenti epocali, delle avventure e delle nevrosi, dei giochi e della gioia, degli amori, delle morti e degli abbandoni. Dei ritrovamenti macabri e delle epifanie. Il paesaggio è anche maschera dell’interiorità: raccontaci come hai scelto le varie location.

Sono i luoghi in cui ho vissuto da ragazzo. Quella periferia sterminata che circonda la Roma storica dei turisti. Sia la periferia dove viveva e vive la piccola borghesia che quella più popolare, che spesso si mischiano tra loro e cambiano con il tempo. Ricordo da ragazzo, per dire, che tutti i gruppetti rock per suonare affittavano a prezzi stracciati le cantine a Monti che era un quartiere popolare, e adesso è invece abitato dalla ricca borghesia cittadina. Oppure i grandi prati sulla laurentina, dopo l’EUR, dove nel tempo sono stati costruiti quartieri nei quali adesso abitano decine di migliaia di famiglie. Non so quanto i non romani abbiano questa percezione della vastità di Roma, solo Londra in Europa lo è di più, ma Londra ha quasi 9 milioni di abitanti, Roma 3. È molto interessante questa cosa, secondo me. Il fatto di vivere in un posto talmente grande che ci sono delle differenze persino nella calata dialettale tra una parte e l’altra della città. Questa cosa non può non generare mille storie.

Raccontaci un po’: se ci sono stati, quali i tuoi riferimenti letterari e (in esergo al romanzo-in-racconti c’è un estratto da un brano di Springsteen) musicali?

Dal momento che parlo con una rivista che si chiama Satisfiction, mi piace soffermarmi sulla seconda parte della domanda. La cultura rock è stata una cultura fondante per me. Non so se, come dice Wim Wenders, senza il rock sarei morto, di certo avrei vissuto molto peggio. Ho messo in esergo un pezzo di Springsteen, perché lo trovo perfetto per fare entrare il lettore nel mondo di Acari. La canzone si chiama Spare Parts, e dice che sono i pezzi di ricambio e i cuori spezzati a far girare il mondo. Immediato, diretto, forte. E, la cosa più difficile: semplice. Come ogni buona canzone sa essere.

Sono gli obiettivi che mi pongo come narratore.

Spero ogni tanto di raggiungerli.

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