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Claire Oshetsky anteprima. Chouette

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La nascita di un bambino ha l’impatto di un asteroide.

Cambia tutto. La vita di coppia, la vita del singolo, il ritmo circadiano, le liste di priorità. È la più radicale rivoluzione che si possa immaginare e anche la più silenziosa perché si consuma tra le mura domestiche e ci si può sentire fortunatissimi e frustrati, incompresi e invidiati e in questo frullato di rifrazioni emozionali, tu non ti sai destreggiare.

Claire Oshetsky, Statunitense, ha scritto per il Times, per Wired e ha ricevuto per quattro volte il premio annuale American Society of Journalists and Authors, ci presenta con Chouette, edito in Italia dall’editore Cencellada, nella traduzione di Thais Siciliano, una metafora molto forte di cosa significa diventare genitori e, soprattutto, genitore di un bambino speciale. Perché se la nascita di un bambino è un asteroide, la nascita di un bambino speciale è una pioggia incessante di asteroidi dove tutto si accentua ulteriormente, dal senso di gratitudine a quello di colpa, dalle difficoltà alle conquiste.

Chouette è una bambina gufo, nata dall’unione onirica di una donna umana e un gufo femmina. Questa creatura così singolare, avrà un impatto enorme sulla vita di Tiny e di suo marito, sulle loro carriere e sul loro essere genitori.

Tiny sarà in grado di accettare questo dono della vita e di rispettarne la natura, mentre il padre farà maggiore fatica e cercherà di renderla più simile a lui.

Una riflessione complessa, utile, dentro una favola dark estremamente suggestionante di cui alleghiamo un estratto.

Pierangelo Consoli 

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Che gioia! Dopo il tuo primo pasto a base di topini rosa, sei una bambina-gufo completamente nuova. La tua dieta primi­tiva ti ha trasformata. I tuoi patetici strilli affamati sono cessa­ti. Le continue scariche esplosive di guano all’acido ammonico che mi ero abituata a ritenere «normali» per te si sono ridotte a un flusso gestibile. La tua pelle guarisce subito. L’unica cosa che mi preoccupa è che, circa una settimana dopo che la tua dieta è passata dal latte ai solidi, un pomeriggio, mentre ti cambio il pannolino, noto che tieni gli occhi stretti, e sembri affaticata. Mi chiedo se il cambiamento improvviso di dieta ti abbia costi­pata. Ma proprio in quel momento il tuo becco si apre e lascia uscire un rigurgito di ossa e cartilagine! Che bambina sveglia! Quanto siamo entrambe sorprese e felici!

Nei giorni che seguono, apprendo i tuoi ritmi. Imparo quan­do hai bisogno di carne. Imparo quando ti serve un pannoli­no pulito. Imparo quando devi essere nutrita di nuovo. Imparo quando devi rigurgitare. C’è ancora molto da imparare. La tua nascita ci ha separate in due esseri distinti, e ha spezzato il no­stro intimo legame di sangue. Quando eri dentro di me, sentivo le tue parole e le tue richieste nella mia testa, come se i tuoi pensieri scorressero direttamente da te a me attraverso il nostro flusso sanguigno condiviso. Ora sei divisa da me. L’aria non trasmette il segnale. Non come faceva il sangue. Devo imparare tutto su di te partendo da zero.

Comincio stilando questo elenco:

sensibile ai suoni

arti morbidi

braccia palmate

carnivora

attacca gli occhi

sparge la popò

tende a strozzarsi

Ogni giorno aggiungo altri elementi alla lista. Ogni giorno sono sola con te, ti faccio il bagno e ti nutro, e mi occupo delle tue necessità. Nessuno viene a trovarci. Sono troppo tristi per la nostra tragica situazione. Preferiscono non fermarsi a riflettere sul destino dei bambini-gufo nel mondo.

Ma non siamo completamente sole, vero? Perché tante altre creature hanno cominciato a intrufolarsi in casa e a fare il nido negli angoli, non solo le falene e i ragni ma anche molti altri esseri, uccelli, pipistrelli e cuccioli di pangolino, ci guardano e ci incoraggiano, e cantano in chiave minore; e non appena sentono arrivare mio marito tornano a strisciare nelle grondaie per nascondersi.

Ormai ho letto tutti i libri sui neonati, ma non mi servono a niente. Dicono che entro i quattro mesi dovresti già ridacchia­re e fare versetti, ma tu non fai altro che gracchiare e stridere. Dicono che entro i sei mesi dovresti cominciare a trascinarti sul pavimento gattonando in modo primitivo, ma tu raspi e scatti lungo i battiscopa veloce come un giovane procione. Hai smes­so di crescere. Hai eluso qualsiasi percentile. Non mi preoccupo troppo per la tua statura perché ho letto che molti uccelli pre­datori sono già completamente sviluppati a otto settimane, e potrebbe darsi che anche tu sia già completamente sviluppata, e completamente te stessa, e perfettamente proporzionata così come sei. Ogni sera tuo padre torna dal lavoro e sembra stupito che tu sia ancora qui, viva. Mi dà un lieve bacio sulla guancia, o a volte un colpetto sul fondoschiena, e poi si rifugia nella sua stanza sopra il garage. Ogni tanto ceniamo ancora insieme, ma è sempre più raro anche solo che entri in casa. Quando succe­de, non ti saluta. Deve ancora scendere a patti con le tue pecu­liari abitudini. Non sa se amarti o gettarti in pasto ai cani.

Per quanto riguarda me, mi sono lasciata andare alla si­lenziosa e amorevole inerzia quotidiana del prendermi cura di te. Ogni mio gesto, che si tratti di farti il bagno, vestirti o nutrirti, mi appare come un’orazione sacrificale quotidiana,

un’orazione che non cambia mai. Mi immagino simile a quei monaci di monasteri lontanissimi che fanno volontariamente parte del Sacro Ordine dei Flagellanti. Per far passare il tem­po ti racconto storie della mia infanzia, soprattutto di quando vivevo con l’Uccello del Bosco. Condividevo la stanza con un piccolo gufo femmina che, come me, era scappata dal mondo e aveva trovato rifugio in quel luogo. Quella gufetta perduta aveva proprio la mia età, ed era la mia migliore e unica ami­ca, e insieme vivevamo felici nella casetta del bosco. Nel mio modo infantile, pensavo che la gufetta, con la quale condivide­vo la stanza e tutti i miei segreti, un giorno sarebbe stata la mia compagna di vita. Davo per scontato che, una volta cresciute, sarebbe diventata la mia amante-gufo e la mia dolce metà, e che ci saremmo sposate, e poi insieme avremmo messo su fa­miglia. L’Uccello del Bosco si prendeva cura di noi. Ci amava entrambe allo stesso modo. Ci insegnò a udire il fruscio delle ali d’insetto, il debole strofinio delle formiche tagliafoglie, la voce della pioggia e l’eco riverberante delle rocce di origine glaciale. Ogni giorno ci svegliavamo con il selvaggio vociare degli uccelli diurni. Ogni notte andavamo a letto con i grugniti, gli squittii e i latrati delle creature della notte. La nostra vita era semplice e bella. Pulivamo e spazzavamo, ci prendevamo cura del nostro bandicoot domestico, andavamo a caccia di cibo e ogni sera di­cevamo le preghiere. Era un posto dove sapevo di essere amata, Chouette. Là mi sentivo a casa.

E darei qualunque cosa per poterti portare in un luogo in cui tu riesca a sentirti in quel modo.

Ma ho dimenticato la strada.

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Chouette, Claire Oshetsky, Cencellada 2024, Pp.240, Euro 21

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