Con il suo romanzo d’esordio Basta un pezzo di mare, in uscita per Corbaccio il 13 maggio, Ludovica Della Bosca – che in seconda elementare aveva già scritto un suo primo romanzo su un foglio protocollo – oggi, con un racconto originale, vivace e brioso, ci avvicina alle difficoltà esistenziali di due ragazze nel loro divenire donne adulte. Agata e Sara hanno ventisei anni, si sono conosciute a Monza mentre frequentavano le scuole superiori e hanno consolidato fin da subito un’intensa amicizia, benché i loro caratteri e i loro temperamenti siano alquanto differenti. In un preciso momento, però, la loro intima comunicazione viene interrotta creando in entrambe, giorno dopo giorno, una frattura così profonda tanto da divenire negli anni insanabile – sebbene l’una sia sempre stata presente nei pensieri dell’altra.
Nel romanzo le due protagoniste si alternano nel raccontare in prima persona le loro esperienze, mentre nelle pagine Ricordi, intercalate nei capitoli, una voce narrante entra nel passato di ciascuna e svela al lettore alcuni momenti topici. Questa alternanza di voci narrative e di piani temporali differenti ci permette di penetrare maggiormente nell’interiorità di Agata e Sara, e al contempo ci permette di avere, proprio attraverso i Ricordi, uno sguardo terzo che possa dare al racconto una diversa angolazione, un differente punto di vista, accentuando sia le sensazioni vissute:
“Hanno qualcosa di poetico le stazioni, per quanto trascurate. (..) E insieme alle persone ci sono gli odori, amplificati e mescolati allo schifo della mattina e allo sporco di quel posto che è di tutti e di nessuno, che tutti amano con la stessa intensità con cui lo odiano. E insieme agli odori la voce meccanica che sovrasta il vociare, il vociare che sovrasta i pensieri, i pensieri che soffocano il rumore dei battiti di quei cuori stanchi e sordi”.
Sia i sentimenti provati:
“È troppo facile mentire a qualcuno che si ama giustificandosi nel nome del suo amore, risulta molto più difficile trovare il coraggio di permettere a chi amiamo di giudicarci per quello che realmente siamo”.
Il mare, di cui sembra possa bastare un unico pezzo come richiamato dal titolo, è in realtà nell’intenzione dell’autrice un luogo inconscio molto più vasto, immenso, talvolta imperscrutabile.
È infatti: “Il mare che commuove, che raccoglie. (..) Il mare che svuota, il mare che libera”.
È il trait d’union che accomuna le protagoniste: per Sara, che sul mare di Genova ci è nata, è un luogo familiare; per Agata è il posto della salvezza, dove intende portare l’astice che ha acquistato al Carrefour 24h/24 del primo capitolo, perché, guardandolo negli occhi nell’acquario della pescheria, ha provato l’impellente desiderio di liberarlo.
Così, il romanzo diviene un viaggio verso un luogo di mare. Ma è soprattutto un viaggio verso la libertà, verso l’indipendenza e la scoperta della propria identità, per riuscire a trovare un equilibrio personale solido che possa sostenere l’intera struttura interiore. Un viaggio alla ricerca di un posto speciale nel mondo in cui sentirsi piacevolmente a casa, anche se ciò, per le due giovani, implica necessariamente entrare in conflitto con i propri genitori, sino ad allontanarsene. Un percorso che le metterà in contatto con gli abbandoni e il senso di perdita, i distacchi dolorosi e la morte, di qualunque natura essi siano.
E ancora, un viaggio che possa essere liberatorio perché, quando la potenza delle emozioni è stata troppo pressante e ha soffocato il respiro, l’unica scelta possibile da attuare è stata scappare dalla propria esistenza, rintanarsi in se stessi, creando un luogo nascosto agli occhi di tutti dove proteggersi per non sentire più il dolore pulsante. Un nascondiglio interiore dove però si è sperato arrivasse sempre la luce dall’esterno, perché qualcuno là fuori si accorgesse di una presenza sul fondo e potesse arrivare a salvare, a liberare dalla scorza dura: con un amore incondizionato, sanando le ferite, ridando fiducia nella vita. Così Agata e Sara e la loro resistente corazza.
Con accadimenti commoventi e frasi intense a cui si avvicendano situazioni assurde e frasi spiritose che strappano il sorriso, Agata e Sara cercheranno di ritrovarsi per ricucire il loro doloroso strappo, e forse il mare con il suo abbraccio potrà riunirle negli intenti e nei desideri.
Forse proprio un pezzo di mare potrà divenire salvifico nello sciogliere i grovigli interiori che le esperienze di ciascuna hanno cementato, così saldamente, da creare macigni pesantissimi da portarsi ancora appresso, sul cuore.
“(..) forse la felicità è anche questo, forse è lasciare andare le cose come devono andare e semplicemente viverle.”
Chiara Gilardi
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Ho di fianco a me una delle persone che mi ha conosciuto di più nella mia intera esistenza eppure non riesco a rilassarmi. Non so se sia colpa solo di quell’insetto acquatico che ora sta graffiando, con le sue zampe orribili, la parete liscia della scatola che gli abbiamo comprato, credo che l’imbarazzo nasca più dalla paura di affrontare il silenzio. È semplice consapevolezza, un sentirmi a disagio per tante piccole colpe a cui non so dare una spiegazione ma che sento la necessità di giustificare.
Ci siamo lasciate tanti anni fa, io e questa ragazza, ci siamo urlate in faccia cose terribili e abbiamo continuato a vivere le nostre vite come se niente fosse mai successo. Ci siamo allontanate l’una dall’altra a testa alta, arrabbiate e orgogliose, ma eravamo come due mele che cadono e, subito dopo la caduta, sembrano ancora perfette ma solo perché si sono ammaccate dentro.
Quel livido marrone, apparentemente invisibile, ha iniziato a espandersi solo qualche giorno dopo e presto, molto più velocemente di quello che ci saremmo aspettate, la nostra polpa è diventata acquosa. E intorno a quel piccolo segno ha iniziato a formarsi uno strato sottile di muffa che, prima nei giorni e poi negli anni, si è espanso e ha rovinato ogni cosa.
E mi sembra assurdo che dopo tutto questo tempo, dopo i tagli e le cicatrici, ci siamo fatte prendere dall’entusiasmo per uno stupido astice e ci siamo trovate sigillate in questa grande scatola di latta che è la sua Daewoo Matiz, la stessa che aveva quando eravamo ancora due perfette mele Melinda da pubblicità.
Il navigatore dice che mancano poco più di due ore alla nostra destinazione, centosettanta chilometri che possono bastare appena per metterci una pietra sopra o essere più che sufficienti per lasciarci soffocare nelle nostre paure.
So che presto inizierà a mancarmi l’aria perché mi sento come sigillata dentro a una confezione di alici Rizzoli, non in olio d’oliva ma in salsa piccante.