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Sélim Nassib anteprima. Ti ho amata per la tua voce

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La passione di una fan: “Lo sceicco Ibrahim provava a staccarmela di dosso, ma lei restava aggrappata. Ero il più grande cantante d’Egitto, il più grande, così diceva. Aveva ascoltato i miei dischi sul grammofono della figlia del sindaco”.

La dedizione di un maestro: “Le ho dato quello che avevo e quello che non avevo. Sapeva cantare con il sangue, le ho insegnato a cantare con il cuore. Ma niente placava quell’appetito, la sua bocca così grande. Poeti, musicisti, li vuole tutti. Va in fretta come se le mancasse il tempo, come se stesse per morire, non ha neppure ventidue anni”.

L’intuizione di un artista: “Improvvisamente, capii. Era per lei che facevo questa traduzione. Volevo che la ragazza cantasse le Ruba’iyyat di Khayyam, era questo che volevo. Dovevo riuscirci”.

È in libreria Ti ho amata per la tua voce di Sélim Nassib (Edizioni E/O 2024, pp. 240, € 18,00 con traduzione dal francese di Barbara Ferri)

Sélim Nassib è uno scrittore e giornalista nato e cresciuto a Beirut in una famiglia ebraica di origine siriana. Oltre a Ti ho amata per la tua voce, le Edizioni E/O hanno pubblicato anche il romanzo L’amante palestinese e la raccolta di racconti Una sera qualsiasi a Beirut.

“Ti ho amato per la tua voce” è un romanzo storico basato sulla relazione tra Ahmad Rami, poeta e paroliere egiziano, e la leggendaria cantante egiziana Umm Kalthoum. La vita di Kalthoum, morta nel 1975, sembrerebbe impossibile da rendere noiosa. Kalthoum per la sua biografa e studiosa di Harvard Virginia Danielson era una cantante con il virtuosismo di Joan Sutherland o Ella Fitzgerald, il personaggio pubblico di Eleanor Roosevelt e il pubblico di Elvis.

Il libro è anche un viaggio appassionante attraverso il Medio Oriente che getta luce sulla complessa posizione della donna nelle società islamiche.

Umm Kalthoum è considerata la più grande cantante araba di tutti i tempi. Inizialmente legata da un’amicizia con il re Faruk e successivamente con Nasser, Umm Kalthum è un personaggio carismatico, capriccioso e geniale. Il romanzo esplora la sua vita, rivelando la sua complessa relazione con l’amore: amata da molti uomini, ma lei stessa attratta dalle donne. In particolare, si focalizza sul legame intenso con il poeta Ahmad Rami, innamorato di lei per tutta la vita e autore degli struggenti testi delle sue indimenticabili canzoni. Nonostante Umm Kalthum non ricambi il suo amore, Rami diventa la fonte da cui lei attinge ispirazione, parole e il dolore che permea le sue performance.

Con Rami, l’intero mondo arabo si innamora della voce di Umm Kalthum, della sua sensualità ambigua e dell’amore impossibile che lei canta con maestria.

La descrizione del suo canto assomiglia a una possessione: “Rallentamenti, modulazioni, esitazioni, anche le leggere raucedini su alcune sillabe. Ma l’impalcatura era sparita, il canto usciva come dettato dalla più libera ispirazione, le parole diventavano trasparenti. Aveva provato tutte quelle ore, aveva rubato il segreto, lo possedeva, lo trasformava in suoni, in vibrazioni di corde vocali. Una piccola contadina, niente di più, ma una medium”.

Un romanzo avvincente in cui la poesia incontra il canto e in quell’unione due anime si conoscono e iniziano a danzare insieme, per scoprire, con la saggezza del poeta persiano al-Rumi che: “Il più bel grido d’amore è quello dell’amore impossibile”.

Carlo Tortarolo

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Avevo riconosciuto i bambini che timidamente mormoravano i propri nomi, avevo aperto le braccia a chi era nato dopo di me. Di nuovo, mia madre mi serviva senza sosta, osservandomi come se avessi dovuto inghiottire il paese natale in un solo boccone. Mi fissava senza tregua, ero carne della sua carne. Il corpo generoso dei miei mi aveva accolto, si richiudeva su di me strettamente, stesso sangue, stessi organi. Alla lunga era un po’ ripugnante. Ma perché raccontarmi storie, tutto questo mi era mancato. L’avevo sentito nel bel mezzo degli abbracci virili, delle risa, nell’arabo soprattutto, di nuovo l’arabo, vicino e lontano, la musica di fondo di questa magnifica lingua, il mio vero paese.

C’erano degli yuyu, c’erano delle domande. Avevo conosciuto Parigi, avevo gustato il frutto. Ma come raccontare. La mamma e mia sorella Salwa si scambiavano silenzi pieni di aspettative. Solo loro tenevano conto dei miei tre anni di assenza. Gli altri cinque fratelli e sorelle non contavano. Ero tornato, laureato alla Sorbona, capo famiglia a ventitré anni. Pensavo con rimpianto alla mia stanza di Parigi. Laggiù non ero nessuno.

Muhammad mi aveva portato via di lì, Muhammad ’Abd al Wahhab, il mio unico amico. Vestito all’occidentale e con il fez. Mi aveva rapito, camminavamo in mezzo alla strada, leggeri, adolescenti, insieme. Avevamo all’incirca la stessa età e già tutte le strade gli si erano aperte. Era cantante, compositore, musicista. Un talento formidabile. Non ho mai capito perché avesse scelto me, come amico. Era venuto a passare una settimana a Parigi, aveva aperto la porta della mia stanza, aveva dormito per terra, non ci eravamo più lasciati.

E ora mi portava con sé, voleva stupirmi. Avevo perso il giorno dell’indipendenza, la folla nelle strade, una gioia così grande, non sapevo cosa avevo perso, anche l’aria doveva profumare diversamente. Guardavo, respiravo, niente era cambiato, fortunatamente. I negozi, i clamori della notte, il rumore del tram e il suo odore di elettricità, era proprio Il Cairo. Ero stordito. L’aria calda ci avvolgeva. Le strade scorrevano lungo i binari, i negozi brillavano alla luce dei lampioni a gas, l’Oriente si nascondeva nella calligrafia femminile delle loro insegne. I banchi di spezie, la frutta, i caffè, gli uomini fedeli all’appuntamento, niente era cambiato. Il primo fresco aveva dato il segnale, la vita notturna stava iniziando.

Una volta pagato e varcato il cancello del giardino di Azbakiyya, la sensazione di essere arrivato mi piombò addosso. Gli alberi, i viali disegnavano una geografia familiare, ma soprattutto la musica, il brusìo, un’oasi sonora che avrei riconosciuto a occhi chiusi. Non ero mai partito.

Una folla aspettava davanti al piccolo teatro, le donne erano sempre meno numerose degli uomini, ma i fez avevano avuto la meglio sui turbanti e i cappelli sui fez. Io, portavo il basco. Muhammad si è scoperto. La gente lo riconosceva e si scansava per lasciarlo passare. Con i capelli arruffati e la riga, assomigliava un po’ a Jean Cocteau. La sala poteva contenere solo un centinaio di persone, per noi restavano gli ultimi posti. La gente affollava i viali, si sedeva a gambe incrociate per terra.

Il gruppo era già sul palco, due contadini vestiti con la lunga jubba marrone e con i turbanti, due sceicchi venuti direttamente dal villaggio; davanti a loro, al centro c’era seduto un ragazzo, immobile, spaventato, con le mani unite sul ventre, severo come possono esserlo gli adolescenti. Si vedevano solo le mani e il viso, un viso rotondo, con i tratti un po’ forti, che sarebbe stato quasi brutto senza quei grandi occhi neri. Malgrado il caldo e i proiettori, una cappa gli copriva il corpo e un fazzoletto, stretto alla testa da due anelli, si chiudeva sotto il mento.

Non succedeva niente, la gente parlava, il giovane non sapeva che fare. Lanciò una nota al disopra della mischia. Era la Fatiha, il primo versetto del Corano. La voce era giovanile e insicura ma singolare, spinta da una forza poco comune, un soffio che non finiva mai di espandersi. Il ragazzo attaccò la seconda frase molto piano e risalì progressivamente, tenendo la nota e facendola vibrare. La gente rispose con un mormorio di approvazione. La voce ripercorse il testo sacro inserendo tra le frasi dei respiri che più nulla veniva a turbare. Riprendeva in mezzo al silenzio, saliva negli acuti, tremava a lungo all’apice. L’ultimo richiamo restò in sospeso.

Si sentirono dei « Dio è il più grande!». Ma lui, niente. Con gli occhi sempre bassi, senza alcun segno di connivenza con il pubblico, si lanciò di nuovo, una vampata di calore mi salì al viso, quei versi che pronunciava erano miei, li avevo scritti prima della partenza, «La passione si tradisce attraverso gli occhi», la mia poesia, su quelle labbra beduine. Mi girai verso Muhammad, ecco com’era andata. Gli sorrisi, ma avevo voglia di nascondermi. Qualcosa nel canto dell’adolescente mi era sgradevole. La potenza, il timbro, la padronanza del respiro erano eccellenti, non lo nego, ma la voce entrava a modo suo, mi riempiva con un’inconsapevole e indecente naturalezza. Nel vuoto di alcune note, una leggera raucedine introduceva un profumo di sensualità, qualcosa di scoperto. Ero molto a disagio.

Vibrava di fedeltà e le mie parole si trasformavano in ciò che volevano dire, io stesso credevo nella loro realtà. Non erano più le parole, ma la cosa stessa, il sentimento, il mio intimo segreto esposto davanti a tutti. Il canto non veniva semplicemente dalla gola, l’intero corpo sembrava fremere, quasi librarsi in volo, per proiettarlo all’esterno. Una trance immobile. Quel ragazzo imberbe riusciva a incarnare il dolore, la dolcezza che io stesso attraverso lui per la prima volta sentivo di esprimere. Era in lui.

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